Guerra, armi e sanzioni
L’alternativa non è certo la resa dell’Ucraina, come sostengono in molti, ma piuttosto una belligeranza a più bassa intensità, con la dotazione – cospicua – di armi e addestratori che i combattenti ucraini già avevano prima dell’invasione o che continueranno a procurarsi dai loro aggressori. O si pensa invece che una resistenza ucraina più armata possa indebolire Putin fino a farlo detronizzare, o fino a provocare la dissoluzione della Federazione Russa (come in Libia, in Siria, in Iraq), per lasciare campo libero allo sfruttamento delle sue immense risorse? In tal caso quella guerra si rivelerebbe niente altro che un conflitto “in conto terzi”, a beneficio di chi vorrebbe cambiare radicalmente gli equilibri internazionali. Ma “dietro” la Russia c’è l’ombra di una Cina che certo non l’abbandonerà al saccheggio dell’Occidente. E “davanti”, se Putin vedrà in forse il suo potere o la sopravvivenza della Federazione Russa, c’è la bomba atomica, come lui stesso ha dichiarato.
Grottesco poi che quelle sanzioni a metà vengano varate a complemento e non come alternativa all’invio delle armi, come sarebbe stato possibile in presenza di una mediazione che non scontenti entrambe le parti: possibile, verosimilmente, prima dell’inizio delle ostilità, ma forse anche ora, purché con un mediatore credibile. Certo, non la Turchia di Erdogan a cui l’Unione Europea ha già delegato troppi misfatti. L’Onu ha dimostrato da tempo di non essere in grado di assolvere ai suoi compiti: è ormai poco più che una rete di agenzie privatizzate dal mondo del business. Nato e Cina sono di fatto parti in causa. Della mediazione dovrebbe farsi carico l’Unione Europea, che avrebbe tutto l’interesse ad allargare uno spazio di pace sul continente, se non fosse appiattita sulla Nato. Ma la guerra non ha fatto che consolidare – e allargare, con nuovi membri – questa subalternità. La favola di un esercito europeo non è che un’altra tappa nel rafforzamento di quella subalternità: gli Stati Uniti esigono da tempo l’assurdo obiettivo del 2% del Pil per le spese militari.
Ma il paradosso di questa guerra è più profondo: in tempo di pace (in Europa, non altrove) molti osavano un paragone bellico: se gli Stati Uniti, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, erano riusciti in pochi mesi a convertire il loro apparato industriale alla produzione di armi di ogni genere, perché mai, di fronte all’imminente catastrofe climatica e ambientale, non è possibile riconvertire in poco tempo alle energie rinnovabili l’industria dei fossili e quelle che ne dipendono? Ora la guerra c’è, ma nessuno sembra chiederselo più. Eppure, per sostituire le forniture di gas, petrolio e carbone della Russia con gas di diversa provenienza – cioè per potenziare i gasdotti esistenti, posarne di nuovi, fabbricare altre navi metaniere e nuovi gassificatori a sufficienza – ci vogliono almeno quattro anni. Più di quanti ce ne vorrebbero per sostituire con fonti rinnovabili tutto il settore energetico fondato sui fossili e tutte le attività che ne dipendono. A condizione, ovviamente, di fermare, per convertirla, gran parte dell’apparato industriale, dei consumi individuali, degli stili di vita. In fin dei conti, negli anni ’70, era stata fermata per due volte la circolazione delle auto per paura di rimanere senza petrolio e non era morto nessuno.
Imboccare questa strada, invece di accanirsi sul gas, permetterebbe anche di avvicinarsi con grande anticipo agli obiettivi della COP 26, ma né l’industria né la popolazione sono pronte per un salto del genere. Perché nessuno di coloro che potevano – e avrebbero dovuto farlo – se ne è occupato. Hanno continuato a cincischiare con ipotesi minimali o fantascientifiche, pur di mantenere così com’è l’apparato industriale e soprattutto il potere di chi lo governa. Ma siamo ancora in tempo a farlo e la lotta per fermare questa guerra potrebbe aiutarci.
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