«Tornato all’università era un’altra persona. Aveva lo sguardo spento»
Rezi Scharifi* è professore in un ateneo iraniano. Alle sue lezioni, da un pezzo le studentesse non indossano più l’hijab. Il timore, però, che il regime le arresti è più forte che mai.
Reza Scharifi, lo scorso ottobre a Zeit Campus ha dichiarato che gli studenti sono il motore della protesta. Nel frattempo sono stati giustiziati i primi giovani. Com’è cambiata la situazione nelle università da allora?
Il governo è senz’altro riuscito nell’intento di incutere paura con le esecuzioni. Se è vero che in molte università le manifestazioni stanno proseguendo, da due settimane, nel mio campus non ne assisto più a nessuna. Oltre a ciò, sui social ho visto meno video sulle proteste. Ciò tuttavia non significa che sia finita qui. Piuttosto sembra che i manifestanti stiano cercando nuove strade per tenere accesa la speranza.
Che intende?
In questo momento è subentrata la disubbidienza civile. In molti prelevano tutto il loro denaro dalle banche e lo cambiano in valute estere. Non vogliono che il governo usi i loro soldi per finanziare la repressione, per esempio acquistando autoveicoli e gas lacrimogeno. Tantomeno io. In banca avevo qualche risparmio e ho convertito tutto in euro e in dollari americani. Ai miei corsi universitari la maggior parte delle studentesse non indossa l’hijab. Se lo toglie non appena entrata in aula. È il loro simbolo della protesta. Anche lo sciopero generale di pochi giorni fa ha avuto molto successo. La maggioranza dei negozi aveva le saracinesche abbassate.
Lo sciopero generale della popolazione pare abbia inferto un duro colpo al regime, perché grazie a ciò è circolato meno denaro. Nell’ateneo in cui insegna hanno scioperato?
Sì. Per la verità, proprio per quei giorni avevo fissato le prove intermedie. Giunto l’appello a scioperare, ho annullato tutti gli esami e i seminari previsti. Ai miei studenti ho comunicato che non sarei venuto e che non si sarebbero dovuti presentare. Due miei colleghi hanno fatto la stessa cosa. Benché il consiglio direttivo ci avesse avvertito che questa decisione avrebbe potuto avere conseguenze. Al direttivo io e i miei colleghi replicammo che avremmo avuto la coscienza pulita nel saltare gli incontri se gli eventi nel Paese erano così gravi. Perlomeno nella mia facoltà, durante lo sciopero, non ha avuto luogo una sola lezione. Salvo qualche professore che sostiene il regime, all’università non è venuto nessuno.
Con gli studenti può parlare di quel che sta avvenendo in Iran?
Devo essere prudente. In ogni corso un paio di studenti, oppure i loro genitori, solidarizzano col regime. Recentemente uno studente mi ha scritto dicendomi che non sarebbe venuto perché doveva combattere contro i – testualmente – «teppisti». Si rifiutava di usare la parola «manifestanti». Agli occhi di quanti la pensano come lui, si tratta a tutti gli effetti di rivolte. Appoggiava le esecuzioni dei manifestanti. Capii che si sarebbe recato alle manifestazioni come agente in borghese della milizia Basij. Conosco lo studente già da qualche tempo e non ne sapevo nulla. È stato scioccante.
Com’è la situazione durante le sue lezioni?
Talvolta gli studenti pongono domande sulle proteste, a quel punto ne parliamo. Anche in questo caso sono prudente. Di recente ho parlato di disuguaglianze, ovvero economiche, razziali, etniche – e di disparità tra i sessi. Ho detto ai miei studenti di immaginarsi un Paese ipotetico, perché non volevo dire «Iran». Ma naturalmente pensavo all’Iran. Oltre a ciò, ho parlato in inglese. All’occorrenza potrei perlomeno affermare di aver parlato di un altro Paese.
Come stanno i suoi studenti che partecipano alle proteste?
Alcuni vi prendono parte dal primo giorno. Quando ci vediamo all’università, non ne parliamo. Quando voglio sapere se stanno bene, se sono rincasati dopo le manifestazioni, uso il mio cellulare. Per la mia e la loro sicurezza, riduco queste conversazioni al minimo. Nell’ateneo in cui insegno la maggioranza degli studenti che ha protestato è stata sospesa. A oltre duecento studenti è stato vietato di frequentare l’università per due o tre semestri. Se non ti acciuffano le forze di polizia all’esterno, al più tardi ti punisce l’università.
Conosce studenti incarcerati dal regime?
La storia di uno studente mi inquieta profondamente. Per più settimane non si è presentato ai miei corsi. Quando fece ritorno, era così magro che a tutta prima non lo riconobbi. Mi raccontò che suo fratello minore era stato arrestato a una manifestazione di protesta. Si era così recato nella sua città d’origine per aiutare i genitori a cercare il luogo in cui era stato incarcerato. Lo trovarono. Fu rilasciato, ma i genitori lo nascosero affinché le guardie rivoluzionarie non lo torturassero nuovamente nel caso in cui fossero tornate. Tornarono, non lo trovarono e al suo posto arrestarono il figlio maggiore, il mio studente.
Cos’è accaduto in seguito?
Lo studente mi raccontò che non avevano fatto che riempirlo di botte per tre giorni. Ogni due, tre ore veniva picchiato da più persone affinché rivelasse dove si trovava suo fratello minore. Di notte era costretto a dormire con la musica ad alto volume, lo privavano dei suoi indumenti. Non gli davano da mangiare. Tornato all’università era un’altra persona. Aveva lo sguardo spento. Spesso chiedeva di ripetere quel che avevo detto.
Ha affermato che non tutti i suoi colleghi sostengono le proteste. Come si comporta nel quotidiano?
Cerco di averci a che fare il meno possibile. Non riuscirò a mutare il pensiero di questi colleghi. Credono perfino alle confessioni forzate che trasmettono in tv. Per esempio, qui al campus, c’è stata una protesta silenziosa degli studenti. Si sono attaccati alla bocca un nastro rosso, come simbolo della repressione. Un paio di loro sono stati arrestati e sospesi dall’università. Ero presente, ho visto tutto. Come anche quella studentessa arrestata che conoscevo. Tempo dopo uno dei miei colleghi asserì che la studentessa se l’era meritato, dal momento che era stata trovata in possesso di droghe e di un coltello. Al che ho risposto: «Mio Dio, ma ci credete veramente?» Questa gente però ci crede per davvero.
Lei supporta i suoi studenti, per esempio non li boccia qualora non vengano alle lezioni. L’hanno notata nel frattempo?
Sono già stato convocato nell’ufficio per la sicurezza dell’università. Un ufficio del genere c’è in ogni ateneo. La Guida della rivoluzione invia una persona che vigila sulla cosiddetta purezza etico-morale dell’università. Mi dissero che avevo incoraggiato gli studenti a scioperare. Risposi che non li avrei semplicemente biasimati se non fossero venuti al mio corso. Per l’ufficio, però, questa mia condotta si configurava già sufficientemente come incoraggiamento. Mi hanno anche minacciato di ripercussioni.
Sostenere i suoi studenti richiede coraggio.
Prima avevo paura, ora però non più. Sebbene le conseguenze delle mie azioni possano essere gravi. Per un’intervista con un giornalista straniero credo sia prevista la pena di morte. Per questa ragione cerco di essere prudente. Ma non ho timore di essere espulso dall’università. Per me non ha più alcuna importanza.
Alcuni parlamentari tedeschi hanno assunto il patrocinio politico di detenuti che rischiano l’esecuzione. Tramite lettera, i politici stanno per esempio tentando di esercitare pressioni sull’ambasciatore iraniano in Germania. Il proposito è ottenere l’attenuazione della pena detentiva o addirittura il rilascio. Crede possa servire?
In tutta franchezza credo di no. Il patrocinio è un bel gesto. Non voglio essere ingrato, ad oggi la Germania si è mossa egregiamente. Solo che, a quanto pare, alcuni continuano a concepire l’Iran come un Paese nel quale i funzionari prestano ascolto e parlano di questioni. Non lo fanno, reagiscono solo alle pressioni. Invitare l’ambasciatore e dirgli: «Ehi, può riferire al Suo governo che deve fare questo e quello?», non è fare pressione. È un bene che i politici si interessino delle sorti dei detenuti. Tuttavia, sono dell’avviso che sarebbe già dovuto succedere molto tempo fa. La proposta di chiudere le ambasciate iraniane e di espellere gli ambasciatori è buona. Ed è stato un bene estromettere l’Iran dalla commissione Onu per i diritti delle donne. Se fossi un politico, sanzionerei in modo ancora più severo.
Cosa dovrebbe accadere all’estero?
Abbiamo bisogno di leader dell’opposizione iraniana al di fuori dei confini del Paese. Un gruppo che guidi le proteste sul territorio nazionale ma che allo stesso tempo negozi con i governi esteri. Ho l’impressione che alcune amministrazioni europee e gli Usa non siano disposti a sostenere l’Iran come hanno fatto con l’Ucraina – dal momento che non sanno che aspetto avrebbe l’Iran dopo il cambio di regime. Il compito del raggruppamento d’opposizione sarebbe quello di definire questo quadro. A quanto pare, anche il presidente francese, Emmanuel Macron, dopo aver ricevuto all’Eliseo la giornalista iraniana Masih Alinejad, ha riconosciuto che in Iran non si stanno verificando solo delle proteste, ma una rivoluzione. Occorrono più incontri come questo. Ci sono alcuni iraniani che potrebbero divenire congiuntamente i leader dell’opposizione all’estero. Masih Alinejad è una di questi, ma anche l’attrice e attivista Nazanin Boniadi. E l’ex calciatore professionista Ali Karimi. È un sostenitore, gode della fiducia di molti iraniani.
Al momento il regime sta intervenendo duramente contro la resistenza. Come crede che si evolveranno le proteste?
Molte persone nel frattempo temono di essere giustiziate e non protestano più. Ecco perché, in questo momento, non sono in grado di valutare bene la situazione. Pochi giorni fa a Teheran ci sono state delle marce silenziose per le quali le persone si sono radunate spontaneamente. Nei giorni a venire pare ci sarà un altro sciopero di tre giorni. Oltre a ciò, ci stiamo avvicinando a un paio di ricorrenze. L’8 gennaio si celebrerà l’abbattimento di un aereo ucraino da parte delle guardie rivoluzionarie, avvenuto nel 2020. Credo che in molti si stiano rimettendo in forze. Presto torneranno in strada.
* Per proteggere il nostro interlocutore, abbiamo modificato il suo nome e omesso importanti informazioni sulla sua identità.
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