La guerra come business: il caso del Congo
La guerra nella Repubblica Democratica del Congo è un tipico caso di business a mano armata.
Dietro la violenza si nascondono interessi economici enormi, legati allo sfruttamento delle risorse minerarie. Il recente attacco del Mouvement du 23 mars (M23) e la sua temporanea avanzata su Goma, seguita dalla battaglia di Nyabibwe, mettono in luce una realtà scomoda: la guerra conviene a qualcuno. E non sono certo le popolazioni locali, costrette a vivere tra bombardamenti e sfollamenti forzati.
Il governo congolese e le Nazioni Unite - riferisce oggi l'agenzia DIRE - denunciano il coinvolgimento diretto dell'esercito del Ruanda nel sostegno ai ribelli dell'M23. Le motivazioni? L’accesso ai giacimenti di coltan, cobalto e rame, risorse essenziali per l’industria elettronica globale. Nella regione del Nord Kivu, che si estende su un'area grande quanto il Veneto, il valore di questi giacimenti è stimato in ben 24 mila miliardi di dollari. Un bottino che rende la guerra un investimento per chi detiene il potere militare e politico nella regione.
La strategia adottata è ormai collaudata: occupazione di territori ricchi di risorse, instaurazione di un controllo militare e sfruttamento minerario sotto il pretesto della sicurezza. La storia recente della regione dimostra che dietro ogni tregua si cela il tempo necessario per riorganizzare le forze e rafforzare il controllo economico.
Il ricatto geopolitico ruandese si basa anche su una narrazione che fa leva sulle tensioni etniche e sulla necessità di neutralizzare le Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (FDLR), un gruppo armato composto da ex combattenti hutu, alcuni dei quali coinvolti nel genocidio del 1994. Tuttavia i membri effettivi delle FDLR non supererebbero le poche centinaia di unità: una presenza troppo esigua per giustificare un intervento che sta infliggendo sofferenze a milioni di persone.
La realtà è che la guerra nel Congo orientale è funzionale a un sistema economico globale che ha bisogno di materie prime a basso costo per alimentare la produzione di smartphone, computer e veicoli elettrici. Il coltan e il cobalto estratti in queste zone finiscono infatti nelle catene di approvvigionamento di giganti della tecnologia. Nel frattempo, mentre le multinazionali cercano di dissociarsi dalle accuse di sfruttamento e finanziamento dei conflitti, la popolazione congolese continua a pagare il prezzo più alto.
È necessario un cambiamento radicale nell'approccio della comunità internazionale: occorre interrompere il flusso di denaro che alimenta i signori della guerra, garantire trasparenza nelle catene di approvvigionamento e imporre sanzioni reali contro i governi che traggono profitto dai conflitti armati. Altrimenti, la pace resterà un’illusione, mentre gli affari della guerra continueranno a prosperare.
I congolesi hanno già espresso la loro rabbia contro l'Unione Europea, considerata complice del Ruanda e della guerra, attaccando nella capitale del Congo le ambasciate di alcune nazioni occidentali.
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