Conflitti

Denuncia per i prigionieri irakeni

Il testo dell'esposto presentato da alcuni parlamentari e giuristi democratici perchè la Procura della Repubblica presso il Tribunale Militare di Roma indaghi sul mancato rispetto delle Convenzioni Internazionali in materia di trattamento dei cittadini irakeni fermati dai militari italiani
21 maggio 2004
Redazione di www.giuristidemocratici.it

Al Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale Militare
di Roma

I sottoscritti
Elettra Deiana, ..., Domenico Gallo, ...., Fabio Marcelli, ......, Francesco Martone, ...., Silvana Pisa, ...., Cesare Salvi, ....,
espongono quanto segue:

Il Ministro della Difesa, on. Antonio Martino, ha comunicato alla Camera dei Deputati, durante la seduta del 12 maggio 2004 che:
“ i dati che attengono alla consegna di soggetti fermati dal nostro contingente alle forze della coalizione ed alla polizia locale riguardano 573 cittadini iracheni: di questi 112 sono stati direttamente rilasciati a seguito dei primi accertamenti, 419 sono stati consegnati alla polizia locale per l’ulteriore denunzia alla autorità giudiziaria irachena perché sospettati di reati comuni, 42 sono stati consegnati al Comando della Coalizione che esercita il controllo operativo delle forze per aver commesso atti ostili contro di essa.
A questi soggetti – ha precisato il Ministro – deve essere garantito il trattamento previsto dall’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra: questo precetto del diritto umanitario è stato puntualmente indicato nelle direttive impartite per la missione “Antica Babilonia”, richiamando le Convenzioni internazionali e le previste sanzioni.
(…) I responsabili di attacchi contro le forze della Coalizione vengono fermati per non più di 48 ore e sottoposti ad un primo accertamento. Ove le indagini debbano protrarsi, i sospettati vengono consegnati al comando alleato.
Al riguardo è stato firmato un memorandum di intesa con il Regno Unito per disciplinare il trasferimento dei fermati e l’osservanza delle norme del diritto internazionale applicabili in materia di trattamento dei catturati.”
A seguito della diffusione di documenti fotografici, testimonianze, stralci di rapporti del Comitato Internazionale della Croce Rossa e del rapporto del generale americano Antonio Taguba, è divenuto di pubblico dominio che le forze della Coalizione in Iraq hanno, in particolare nel carcere di Abu Ghraib e a Camp Bucca (ma anche nei luoghi di detenzione gestiti dal Regno Unito), hanno praticato, in modo massiccio e sistematico, torture di ogni tipo (ivi compresi stupri e sevizie sessuali) e con ogni mezzo (ricorrendo anche all’uso dei cani), nei confronti dei catturati iracheni, cagionando la morte di un numero imprecisato di detenuti.
Che non si tratti di episodi isolati o occasionali è dimostrato dalla enorme quantità di documenti esistenti. In particolare da notizie di stampa emerge che l’Amministrazione della Difesa, il 12 maggio scorso, nel corso di una seduta non pubblica, ha mostrato ai Senatori americani numerosi dossier di foto ed altri documenti, che sono risultati ancora più scioccanti di quelle divulgate dai mezzi di comunicazione di massa.
Una tale messe di documenti costituisce - anche - notizia di reato quanto alle commissione, in modo massiccio e sistematico, di gravi violazioni delle Convenzioni Internazionali che regolano l’uso della forza nei conflitti armati, vale a dire di crimini di guerra, commessi da soggetti appartenenti a forze armate di Paesi della Coalizione con le quali la missione italiana in Iraq collabora intensamente, nel quadro della “partecipazione italiana all’azione multilaterale per la stabilizzazione e ricostruzione dell’Irak e per il ripristino delle infrastrutture socioeconomiche di base, nonché per la realizzazione degli interventi umanitari in condizioni di sicurezza” (come recita il preambolo del D.L. 20/1/2004 n. 9).
Come riferito dal Ministro Martino, le modalità della collaborazione italiana comportano l’obbligo di consegnare al Comando della Coalizione gli iracheni catturati per aver commesso atti di ostilità contro la Coalizione. Al riguardo è stato firmato un Memorandum d’Intesa con il Regno Unito che disciplina il trasferimento dei fermati e l’osservanza delle norme del diritto umanitario applicabili ai catturati.
Il Ministro della Difesa non ha ritenuto di rendere noto il testo di tale Memorandum, benchè, rientrando nella categoria degli Accordi internazionali (di natura semplificata) avrebbe dovuto essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ai sensi della legge 11 dicembre 1984 n. 839.
Tuttavia se tale Accordo disciplina anche “l’osservanza delle norme del diritto umanitario applicabili ai catturati”, occorre fare chiarezza su quali siano le norme effettivamente applicabili ai catturati, in quanto il richiamo all’art. 3 comune alle quattro Convenzioni, per quanto utile, è insufficiente a chiarire lo “status giuridico” delle persone arrestate dalle forze della Coalizione.
Infatti, le persone in questione non sono né feriti o malati delle forze armate in Campagna (I Convenzione) né naufraghi delle forze armate sul mare (II Convenzione), né prigionieri di guerra (III Convenzione), in quanto secondo il Ministro della Difesa Martino, l’Italia in Irak “non sta combattendo alcuna guerra”.
Di conseguenza lo status giuridico di tali persone, ricade nella dettagliata disciplina prevista dalla IV Convenzione di Ginevra che regola la condizione delle persone che vivono nei territori soggetti ad occupazione militare da parte di una Potenza belligerante.
E’ assolutamente pacifico, ed è stato ribadito, in più occasioni dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU (in particolare con la Risoluzione n.. 1483 del 21 maggio 2003) che le Potenze occupanti ed i Paesi alleati che collaborano con le forze della Coalizione debbano rispettare scrupolosamente tutte le obbligazioni nascenti dalla IV Convenzione di Ginevra e dagli altri strumenti internazionali che regolano la condizione dei territori occupati.
La IV Convenzione, com’è noto, detta delle norme stringenti a tutela delle persone che vivono nei territori occupati che, proprio per tale motivo, sono considerate “persone protette”. Va da sé che le persone protette non possono essere uccise, né ferite (art. 32), o sottoposte ad atti di coercizione o tortura (art. 31). Tali atti costituirebbero infrazioni gravi della Convenzione (ai sensi dell’art. 147) e comporterebbero, a norma dell’art. 146, l’obbligo di processare i responsabili.
La Convenzione consente soltanto due misure privative della libertà personale delle “persone protette”: l’internamento e l’imprigionamento.
Ai sensi dell’art. 78, l’internamento può essere disposto dalla Potenza (o dalle Potenze occupanti) soltanto “per imperiosi motivi di sicurezza”. Il provvedimento che dispone l’internamento deve essere adottato in conformità ad una procedura che preveda il diritto d’appello degli interessati. Qualora l’organo di appello confermi la decisione di internamento, tale decisione non vale per l’eternità, in quanto deve essere sottoposta ad una revisione periodica possibilmente semestrale, a cura di un organismo competente (vale a dire un organo giudiziario) istituito dalla Potenza occupante.
Le condizioni dei luoghi in cui deve avvenire l’internamento ed i diritti (e doveri) degli internati sono dettagliatamente descritti negli articoli da 83 a 104 della Convenzione. Tali disposizioni mirano ad assicurare il benessere fisico, morale e spirituale degli internati, ai quali viene riconosciuta la libertà di lavorare e di svolgere attività intellettuali, educative, ricreative e sportive.
(E’ appena il caso di rilevare che i campi di detenzione come Abu Ghraib e a Camp Bucca e le altre località note non sono e non potrebbero mai essere campi di internamento)
La seconda misura privativa della libertà consentita è l’imprigionamento attuato nell’esercizio del potere di perseguire penalmente le “persone protette” che commettano infrazioni alle norme penali che la Potenza occupante ha il potere di emanare, nei limiti di cui all’art. 64, a tutela della regolare amministrazione del territorio e dei membri delle proprie forze armate.
Tale potere di esercizio dell’azione penale è regolato dagli articoli da 68 a 77. Tali norme – in sostanza - prevedono che ai catturati debbano essere applicati i principi del “giusto processo”.
In particolare la Convenzione prevede che ogni imputato debba essere informato senza indugio dei capi d’accusa addebitatigli e che la sua causa debba essere istruita il più rapidamente possibile (art. 71).
Di ciascun processo, per reati che possano comportare una condanna superiore a due anni di imprigionamento, deve essere informata la Potenza protettrice (le cui funzioni nel caso dell’Iraq sono sostituite dal Comitato Internazionale della Croce Rossa.)
La notificazione deve avvenire prima del dibattimento e deve indicare in modo preciso l’identità dell’imputato, il luogo di detenzione, la specificazione dei capi d’accusa, l’indicazione del Tribunale ed il luogo e la data della prima udienza.
Naturalmente ogni imputato ha il diritto di essere assistito da un difensore che può scegliere liberamente e che ha facoltà di visitarlo liberamente.
Tali disposizioni, a differenza di analoghe normativa in materia di diritti dell’uomo, non possono essere derogate per ragioni di emergenza, in quanto il diritto umanitario disciplina proprio situazione di emergenza e quindi non ammette deroghe.
Nel caso di infrazioni particolarmente gravi la IV Convenzione consente l’irrogazione della pena di morte, qualora prevista dalla legislazione vigente in precedenza nel territorio occupato.
Le persone catturate nei territori occupati, pertanto, non possono essere sottoposte ad un potere di detenzione illimitato o incondizionato, di tipo Guantanamo. Il problema del rispetto del diritto umanitario applicabile non riguarda soltanto la sottrazione di costoro alla tortura o ad altri trattamenti inumani, ma inerisce all’applicazione in toto delle norme che disciplinano la privazione della libertà..
Qualora le persone arrestate vengano detenute, senza incriminazione per fatti specifici e senza le garanzie del giusto processo, questa situazione costituisce una grave infrazione della Convenzione (cioè un crimine di guerra) e come tale è contemplata da una norma comune alla III e IV Convenzione (l’art.130 della III e 147 della IV).
Di conseguenza il richiamo operato dal Ministro della Difesa all’art. 3 comune alle IV Convenzioni, non è sufficiente per mettere a fuoco il quadro delle obbligazioni gravanti sull’Italia in virtù dell’ordine di esecuzione nel nostro diritto interno della IV Convenzione di Ginevra portato dalla legge di ratifica 27 ottobre 1951 n. 1739.
Infatti se il contingente militare italiano può legittimamente fermare le persone sospettate di aver compiuto atti ostili contro la Coalizione, il fermo di tali persone, se non immediatamente rilasciate, può sfociare soltanto nell’applicazione del provvedimento di internamento o nella sottoposizione delle stesse a procedimento penale, sulla base di specifici capi di accusa e nel rispetto delle regole del giusto processo.
Di conseguenza un Accordo che disciplini la consegna dei catturati, prevedendo il rispetto delle norme del diritto umanitario, deve prevedere anche il rispetto delle disposizioni che regolano la privazione della libertà.
A seguito dei fatti di comune notorietà e delle informazioni comunicate al Parlamento dalle Autorità politiche, è evidente che l’Accordo per la consegna dei catturati non è riuscito ad assicurare il rispetto delle norme del diritto umanitario, con riferimento al destino di costoro.
I casi sono due: o l’Accordo non è stato fatto rispettare, o l’Accordo non conteneva strumenti reali per garantire che alle persone consegnate dal contingente italiano venisse applicato il trattamento previsto dalle Convenzioni Internazionali.
Nel primo caso occorre accertare se sussistono comportamenti omissivi da parte del personale militare italiano che avrebbe dovuto vigilare sull’attuazione dell’accordo e verificarne il rispetto da parte delle Autorità di Coalizione.
Nel secondo caso, qualora l’Accordo non consentisse alcuna forma di verifica circa il trattamento successivo riservato alle persone consegnate dalle autorità militari italiane, occorre verificare se il disinteresse per la sorte delle persone tratte in arresto dalle forze armate italiane, non costituisca una flagrante violazione degli obblighi derivanti al nostro Paese dalle Convenzioni internazionali che regolano il diritto dei conflitti armati, in particolare dell’articolo 1, comune a tutte le quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, in virtù del quale gli Stati contraenti hanno l’obbligo, non solo di rispettare, ma anche di “far rispettare” le Convenzioni, in ogni circostanza.
Per quanto tale obbligo gravi sulle autorità politiche, è compito della Procura militare accertare se il fatto che la Repubblica Italiana abbia “fallito” di adempiere all’obbligo di “rispettare e far rispettare” le Convenzioni per ciò che attiene al trattamento dei detenuti, sia ascrivibile ad errori, imprudenze o omissioni della catena di comando del contingente italiano in Iraq.
In questo contesto occorre verificare – anche - se l’Accordo in questione contenga le necessarie garanzie circa la non applicazione della pena di morte, poiché tale istituto è incompatibile con l’ordinamento costituzionale italiano, come chiarito dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza emessa nel caso di Pietro Venezia.
In ogni caso, fermando delle persone accusate di aver commesso atti ostili contro la Coalizione, e consegnandole alle autorità degli altri Paesi con i quali collabora nel quadro della CPA, il nostro Paese è divenuto - obiettivamente – responsabile della sorte dei catturati.
Pertanto l’eventuale tortura o uccisione dei prigionieri consegnati dal contingente italiano, non si può configurare come un “fatto altrui”, in quanto l’Italia, traendo in arresto tali persone e consegnandole alle Autorità di Coalizione ha posto in essere un antecedente causale, rispetto al “trattamento” successivamente ricevuto da costoro che – in ipotesi – non avrebbero mai potuto essere torturati o uccisi, o sottratti al giusto processo se non consegnati dal contingente militare italiano che ha proceduto al loro fermo. Attraverso la “consegna”, pertanto, l’Italia diventa “concorrente” nel trattamento praticato ai detenuti dalle forze di coalizione.
Il Ministro della Difesa non ha fornito alcuna informazione sulla sorte delle 42 persone consegnate alle forze della coalizione, di cui non ha comunicato neanche i nomi.
Attualmente non si se queste 42 persone sono ancora vive, se sono state sottoposte a tortura o ad altri trattamenti inumani, vietati dalle Convenzioni internazionali e dall’art. 185 bis del Codice Penale Militare di guerra, ovvero se siano stati regolarmente incriminati e sottoposti ad un giusto processo. Ciò rende tanto più necessario ed urgente un accertamento da parte di codesta Procura, anche al fine di evitare che gli eventuali reati, riferibili a tali persone, possano essere portati ad ulteriore compimento.
In questo contesto, c’è un ulteriore problema che deve essere oggetto di accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria.
Il generale Geoffrey Miller, responsabile del trattamento dei detenuti in Iraq, già comandante in capo della task force di Guantanamo, pur deprecando la pratica della tortura, quale emersa dalle foto pubblicate dalla stampa internazionale, ha dichiarato che i detenuti possono essere sottoposti a privazione del sonno e costretti a rimanere in posizioni dolorose.
Da ciò si può dedurre che nella Coalizione esistono delle regole di trattamento dei detenuti che prevedono questo genere di cose. E’ possibile che questo tipo di trattamento riguardi anche la missione militare italiana, se si dimostrasse fondato quanto scritto in un articolo un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 1 dicembre 2003, a firma di Fiorenza Sarzanini, che ci parla della procedura adottata per l’interrogatorio di quattro persone fermate dalla Polizia militare italiana: “la procedura seguita dai Carabinieri è quella imposta dagli Stati Uniti, che alla fine li hanno presi in consegna: i quattro sono rimasti chiusi in una cella al buio, inginocchiati, senza acqua né cibo, per quattro giorni. Una tecnica che mira a far crollare i prigionieri e spesso li porta a confessare.”
Non v’è dubbio che tale articolo contenga una notizia di reato, sulla quale l’Autorità giudiziaria militare dovrà fare luce. Il Ministro Martino non ha inteso comunicare al Parlamento cosa prevedano le c.d. “regole d’ingaggio” in tema di trattamento ed interrogatorio degli arrestati, né ha inteso rispondere alla numerose interrogazioni parlamentari sollevate sulla vicenda riferita dal Corriere della Sera..
E’ evidente che qualora tali procedure contemplassero le regole richiamate dal generale Miller, allora il maltrattamento dei detenuti, non sarebbe una pratica accidentale, ma deriverebbe dall’esercizio di ordini impartiti alle strutture militari dalla catena di comando, sarebbe – in un certo senso – obbligatorio.
Orbene è evidente che gli ordini o le “consegne”, per quanto concordati in un contesto di cooperazione con altri Stati, non possono comportare la prescrizione di comportamenti interdetti dalle norme penali, ed in particolare dalla norma di cui all’art. 185 bis C.P.M.G.
L’eventuale esigenza di riservatezza delle consegne militari, non esclude il dovere dell’autorità giudiziaria di effettuare il doveroso controllo di legalità al fine di impedire e reprimere la commissione di fatti criminosi

Con il presente esposto i sottoscritti chiedano che Codesta Procura della Repubblica prenda conoscenza dei fatti relativi alla cattura, all’interrogatorio, al trattamento ed alla consegna di persone protette alle autorità della Coalizione da parte del contingente militare italiano di stanza in Iraq e svolga una accurata inchiesta per accertare:
a) l’identità delle persone arrestate, le modalità della loro detenzione ed interrogatorio e gli eventi successivi alla loro consegna alle Autorità della Coalizione,
b) verificare, con riferimento ad ogni singola persona protetta consegnata alle autorità di Coalizione, se tali persone siano ancora vive e se il loro trattamento sia o sia stato conforme alle norme pertinenti del diritto umanitario
c) procedere – nell’ipotesi che emergano fatti-reato - a carico dei militari italiani che risultassero implicati in azioni criminose, richiedendo al Giudice competente le misure cautelari coercitive ed interdittive adeguate alla gravità del fatto;
d) trasmettere gli atti all’Autorità Giudiziaria ordinaria qualora emergano ipotesi di reato a carico di altre persone
e) di dare avviso ai denunzianti, che all’uopo eleggono domicilio presso l’Avv. Arturo Salerni, con studio legale in Roma, Via Carso 23, della eventuale richiesta di archiviazione degli atti, a norma dell’art. 408 c.p.p. (A tal fine si precisa che gli on. Deiana e Pisa ed i Sen. Martone e Salvi, in quanto parlamentari sono titolari di uno specifico interesse al corretto funzionamento delle Istituzioni; il dr. Gallo ed il dr. Marcelli sono esponenti dell’Associazione Giuristi Democratici, ente di fatto, titolare di uno specifico interesse nel campo del rispetto dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale.)
Roma, lì 18 maggio 2004

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