Conflitti

Palestina

Il genocidio come strategia dichiarata.

Molte parole diventano tabù quando usate per descrivere le azioni di Israele nei
confronti dei palestinesi. Una parola in modo specifico, genocidio, suscita forti
emozioni, sia in Israele che in Europa ed in America
22 maggio 2004
Sam Bahour e Michael Dahan - trad. P. Messinese

Il Dizionario Merriam Webster così definisce il genocidio: "la distruzione intenzionale e sistematica di un gruppo razziale, politico o culturale". Quello che sta accadendo oggi nei territori occupati, ad est di Gerusalemme e nella striscia di Gaza si avvicina pericolosamente a quelli che si intende con la parola genocidio, così tanto che le immagini dei palestinesi a Rafah che caricano le loro povere cose su carretti, costretti ad abbandonare le proprie case, ci fanno venire a mente un altro periodo, un altro posto, un altro popolo. Queste stesse immagini dovrebbero far scattare l'allarme nei cuori e nelle menti degli israeliani.

Purtroppo, in gioco non c'è una semplice questione di vocabolario, di definizione del conflitto, ma i nostri figli e noi ci rifiutiamo di starcene fermi a guardare mentre un mondo sordo, muto e cieco li deruba del loro futuro.

Poche settimane fa, il professore e sociologo israeliano Lev Grinberg, docente presso l'università Ben Gourion, ha scritto un articolo che ha creato un bel po' di trambusto in Israele e che aveva per titolo "Genocidio simbolico". [1]Il prof. Grinberg ha scritto che "nell'impossibilità di superare il trauma dell'Olocausto e dell'insicurezza da questo derivata, il popolo ebreo, vittima per eccellenza di genocidio, sta adesso perpetrando un genocidio simbolico nei confronti del popolo palestinese. Cosa vuol dire genocidio simbolico? Ogni popolo ha i propri simboli, i propri leader nazionali e le proprie istituzioni politiche, una patria, generazioni, e speranze, passate e future. Tutto questo, simbolicamente, rappresenta un popolo. Israele sta sistematicamente distruggendo e sradicando tutto questo, usando nel contempo un insostenibile linguaggio burocratico".

In questi ultimi anni, e settimane, in specifico, la situazione non può più essere
definita correttamente con il termine "simbolico". Nei territori occupati e nella striscia di Gaza, le città palestinesi ed i campi profughi sono tormentati e bersagliati oltre ogni limite. Questo è lo stesso destino che gli stessi leaders di Israele di oggi avevano imposto ai palestinesi in Libano più di 10 anni fa ed ai palestinesi di Israele 56 anni fa. Gli obbiettivi degli Israeliani sono stati molteplici. Attualmente, mentre scriviamo, uno di questi è la città di Rafah ed il suo campo profughi, nell'estremità meridionale della striscia di Gaza. Questa comunità, povera e isolata, deve affrontare adesso la stessa violenza (forse ancora maggiore) che il campo profughi di Jenin, nella parte settentrionale dei territori occupati, ha dovuto affrontare meno di due anni fa durante l'occupazione da parte dell'esercito israeliano. Il conto dei morti palestinesi è andato aumentando in maniera costante, al punto che i mezzi di informazione non menzionano neanche più i 5-6 morti palestinesi che cadono quasi quotidianamente sotto il fuoco israeliano.

Nonostante tutto, la definizione di genocidio come "distruzione intenzionale e
sistematica", non significa necessariamente l'uccisione fisica delle persone. Non che per Israele questo rappresenti un problema e, tra l'altro, quando questo succede, pare non suscitare nessun tipo di scalpore a livello internazionale. "Distruzione", secondo lo stile israeliano, significa anche demolire le case dei palestinesi con la scusa della "sicurezza". Se non fosse che così tanti palestinesi sono stati uccisi ed ancora di più sono rimasti senza casa, questa scusa definita "sicurezza", ormai datata e confezionata appositamente dagli israeliani, farebbe solo ridere.
Sui giornali israeliani si leggono quotidianamente titoli come questo, pubblicato
all'inizio della settimana "La Corte Suprema (Israeliana) autorizza le demolizioni di Gaza" (Ha'aretz, di Yuval Yoaz e Gideon Alon) e il paragrafo introduttivo parlava di "necessità operative dell'esercito (israeliano)". Questa Corte Suprema è la stessa che diversi anni fa permise che dei prigionieri politici palestinesi venissero torturati mentre erano detenuti dagli israeliani. Sicuramente la Corte Suprema ha una lunga storia di supporto, per mezzo di giustificazioni legali, alle odiose azioni dell'esercito militare israeliano e degli apparati di sicurezza. Questa 'carta bianca' di legalità garantita a Israele per sua opera di occupazione illegale è ancora più grave del fatto che i politici israeliani discutano pubblicamente su quale sarà il prossimo palestinese nella lista delle uccisioni mirate, oppure di come i palestinesi dovrebbero essere "trasferiti" in blocco dalle loro
case e città. Quello che Israele sta facendo è programmato, organizzato, sistematico e illegale. E' una linea politica perversa che viene discussa apertamente e pubblicamente.
D'altra parte Amnesty International, che ha sempre, storicamente, fatto passare sotto tono le ingiustizie inflitte ai palestinesi, ha oggi pubblicato una dichiarazione secondo la quale distruggere quelle case (più di 3000, oltre alle 16.000 danneggiate) e sradicare migliaia di palestinesi, facendone, per l'ennesima volta, dei profughi, "sono crimini di guerra".

Eppure il mondo è rimasto in silenzio.

Come ha dichiarato il prof. Grinberg: "E' una condotta pericolosa, che rappresenta una minaccia non solo per il popolo palestinese, ma anche per lo stato di Israele ed i suoicittadini e , di conseguenza, mette in pericolo l'intero Medio Oriente".

Niente potrebbe essere più vicino alla verità. Per ogni palestinese assassinato dalle mitragliatrici di un elicottero israeliano, per ogni casa palestinese demolita, per ogni palestinese detenuto illegalmente nelle prigioni israeliane, ci sono dieci bambini che vedono tutto questo accadere davanti loro occhi. Per i bambini palestinesi adesso è diventata un'abitudine quella di arrampicarsi sui carrarmati israeliani che invadono le loro città. Triste a dirsi, ma per i giovani palestinesi vissuti sotto questa brutale occupazione militare, la vita ha ormai lo stesso valore della morte e per questo vengono reclutati perché suicidandosi prendano altre vite, le vite di innocenti israeliani, assieme alla loro. Vittime di una pura e semplice aggressione, i palestinesi stanno lentamente perdendo il controllo della loro società e, oltretutto, ne vengono considerati i soli responsabili. Anche gli Israeliani stanno cominciando a dare più valore alla morte che alla vita, come ha scritto recentemente lo psicologo israeliano Yoram Yovel in un editoriale pubblicato sull'Ha'aretz il 17 maggio 2004. Lui osserva che quello che sta succedendo a Gaza riflette un profondo processo psicologico che sta interessando la
società israeliana, rendendola sempre più simile a Hamas ed alla Jihad islamica.

Mentre il mondo sta a guardare la distruzione dei palestinesi come popolo, si ha il
coraggio e la sfrontatezza di pretendere che un popolo ingabbiato sviluppi ed allinei le proprie istituzioni a quelle di un mondo globalizzato. Mentre l'unica superpotenza mondiale sta a guardare, finanzia e fornisce uno scudo di protezione politica al labirinto di posti di blocco dell'esercito israeliano, al muro di cemento innalzato per racchiudere le città palestinesi, si ha il coraggio di impartire lezioni ai palestinesi sulle riforme istituzionali ed economiche necessarie e sul possibile ingresso nella World Trade Organisation (Organizzazione Mondiale per il Commercio).
Come se la liberalizzazione economica rappresentasse una soluzione al disastro
umanitario e politico che il popolo palestinese è costretto a subire, le organizzazioni
mondiali, compreso lo stesso segretario generale dell'ONU Kofi Annan, che pur stanno riconoscendo i crimini di guerra israeliani, inviano squadre di consulenti stranieri per documentare la gravità della situazione, ma poi finiscono per proporre, come soluzione, delle inutili riforme di facciata.
Conoscendo la capacità dei palestinesi di rimanere saldi, nonostante il mondo crolli loro addosso e intorno a loro, potrei avventurarmi a scommettere che continueranno a subire i danni che vengono loro inflitti sistematicamente. Gli studenti continueranno i loro studi, anche in scuole di fortuna, se necessario. Gli investitori e gli uomini d'affari continueranno ad investire e faranno di tutto per poter mantenere il maggior numero di posti di lavoro possibile. Le donne palestinesi, i veri soldati dietro le quinte, continueranno ad essere il filo d'acciaio che tiene insieme la più solida delle istituzioni palestinesi: la famiglia. Ci potremo aspettare tutto questo, si, non a causa della visione limitata e confusa di Bush, che continua a ripetersi come un disco rotto, ma perché i palestinesi lottano per una giusta causa e sono stati programmati per la sopravvivenza, nonostante le difficoltà, e devono continuare a destreggiarsi tra due battaglie straordinarie: una per liberarsi dall'occupazione militare, l'altra per costruire un proprio stato.

Perché la comunità internazionale rifiuta di ascoltare chi richiede a gran voce una
presenza internazionale di peace-keeping nei territori occupati, specialmente nella
striscia di Gaza, per impedire e prevenire un ulteriore inasprimento della situazione ed ulteriori distruzioni? Il minimo che il mondo potrebbe fare è essere lì, tra i due popoli, per il nostro bene ed il loro.

Se, per usare nuovamente le parole del prof. Grinberg "Il silenzio, nelle attuali
circostanze, significa acquiescenza" allora come si deve definire il rifornimento di
armi, il sostegno economico forniti ad Israele (o allo stesso Iraq, per quello) così
impunemente dagli Stati Uniti oltre alla copertura politica per la loro attuale
strategia di distruzione e autodistruzione?

Sicuramente la parola "genocidio" si adatta fin troppo bene ad un potere che dimostra una tale arroganza.

Sam Bahour è un imprenditore palestinese-americanoc che vive nella città palestinese, occupata dagli Israeliani, di Al-Bireh, nel West Bank; può essere contattato al seguente indirizzo e mail: sbahour@palnet.com . E' co-editore di Homeland: Oral Histories of Palestine and Palestinians (Interlink Press, 1998)

Note: Michael Dahan è dottore in scienze politiche. E' israelo-americano e vive a Gerusalemme, dove insegna in un'università israeliana. Può essere contattato al seguente indirizzo e mail: mdahan@attglobal.net .
Altri articoli di Sam Bahour e Michael Dahan
* A Guiding Light Falls on Ramallah
* Palestinian Issue Riddles Bush's 2005 Budget
* Can It Ever Really End?
* The Jerusalem Declaration

NOTE:
1) http://www.amin.org/eng/lev_grinberg/2004/mar23.html

2) http://web.amnesty.org/library/Index/ENGMDE150502004


articolo orgininale:http://www.dissidentvoice.org/May2004/Bahour-Dahan0520.htm

tradotto da Patrizia Messinese a cura di Peacelink

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