Conflitti

Iraq: la bozza di risoluzione dell'ONU e la realpolitik

La bozza di risoluzione sulla guerra in Iraq, presentata all'ONU da Usa e
GB, commentata in questo articolo, sul piano tecnico e politico, da Michele
Di Schiena, magistrato in pensione, componente del movimento pacifista e
ambientalista a Brindisi.
1 giugno 2004
Michele Di Schiena

Ormai l'occupazione militare dell'Iraq è un fatto compiuto che appartiene
al passato sul quale è inutile continuare a dividersi mentre ciò che oggi
urge è un impegno della comunità internazionale per la pacificazione e la
ripresa di quel martoriato Paese: è questa la grande truffa politica,
l'operazione artificiosa e raggirante condotta sul piano internazionale e
all'interno del nostro Paese per ottenere una legittimazione ex post del
conflitto a tutto vantaggio di coloro che lo hanno scatenato o avallato ed
in danno del popolo iracheno che continuerà così a subire ingiustizie,
violenze, scontri armati e atti terroristici. Una operazione rivolta a
riabilitare, lasciando le cose come sono, i responsabili dell'intervento
armato attraverso il coinvolgimento nell'attuale fase del conflitto di
soggetti internazionali che erano stati contrari all'intervento medesimo.

Dovrebbe essere chiaro che chi ha causato la drammatica situazione nella
quale si trova oggi l'Iraq non può essere credibile protagonista di una
possibile opera di pacificazione e di ripresa, specialmente se continua a
rivendicare, come fanno Bush ed i suoi amici (Berlusconi compreso), la
giustezza dell'attacco armato contro la forza persuasiva dei fatti e contro
ogni buon senso. Ed è in quest'ottica che va riguardata la bozza di
risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell'Onu dagli Stati Uniti
e dalla Gran Bretagna. Un documento che prevede un governo iracheno "ad
interim" di nomina esterna sicuramente condizionato dal preventivo placet
americano, la presenza in Iraq di una forza multinazionale sotto il comando
militare statunitense senza l'indicazione di un termine insuperabile per il
ritiro delle truppe di occupazione, il riconoscimento solo formale del
diritto del governo iracheno di usufruire dei proventi del petrolio ma
sotto il controllo di una commissione internazionale di incerta
composizione e dotata di poteri non definiti, l'orientamento a far svolgere
le elezioni entro il gennaio del 2005 senza la previsione di precise
garanzie contro il concreto rischio di condizionamenti esterni provocati
dalla perdurante presenza delle forze di occupazione e, "dulcis in fundo",
la richiesta agli Stati membri dell'Onu di inviare in Iraq contingenti
militari ovviamente alle dipendenze di un comando statunitense.

Altro che svolta! Siamo di fronte al vecchio che si veste di nuovo per
imporre comunque le sue scelte. Siamo al cospetto dell'arroganza che si
maschera di ipocrisia e che cerca di affermarsi con la suggestione di un
potere egemone, con l'utilizzo del servilismo di Stati vassalli e, se
necessario, col ricorso al ricatto e alla minaccia di ritorsioni contro i
dissenzienti come è già accaduto alla vigilia del conflitto in danno di
Francia e Germania. Ma siamo anche di fronte ad una politica, quella
appunto dell'attuale inquilino della Casa Bianca e dei neoconservatori
nordamericani, che è in seria difficoltà per i suoi fallimenti sul piano
economico, per i danni di immagine causati al proprio Paese con incredibili
violazioni dei diritti umani fondamentali e delle garanzie democratiche e
per le dissennate scelte sul versante dei rapporti internazionali e
dell'impegno bellico. Una politica quindi che mostra il suo volto truce ma
che è in effetti debole e che può perciò essere battuta per impedire un
ulteriore aggravamento della situazione mondiale con nuove tragedie e nuovi
disastri. Va perciò considerata politicamente delittuosa ogni
accondiscendenza verso la bozza anglo-americana salvo che essa non venga
convertita in un diverso documento con radicali modifiche sui punti
essenziali concernenti appunto il comando della forza internazionale, la
previsione di un termine breve per il ritiro delle truppe di occupazione,
l'effettivo passaggio dei poteri in mani irachene e la rinuncia americana
ad ogni ingerenza nella gestione nazionale delle risorse petrolifere.

Il fatto è che il giudizio oggi sulla bozza e domani sull'eventuale
risoluzione non può prescindere dai dettami della Carta delle Nazioni Unite
che attribuiscono al Consiglio di Sicurezza ogni potere per il mantenimento
ed il ripristino della pace e, in particolare, per l'uso della forza con
obiettivi di polizia internazionale. Sicché solo il Consiglio di Sicurezza,
per il preciso disposto dell'art. 42 dello Statuto dell'Onu, "può
intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri ogni azione che sia
necessaria per mantenere o ristabilire la pace". E la risoluzione con la
quale il Consiglio di Sicurezza decide l'uso della forza dovrebbe sempre
implicare una diretta assunzione di responsabilità nella gestione delle
operazioni militari da parte dell'Onu che può ovviamente avvalersi di
contingenti armati appartenenti a Stati nazionali, sempre però sottoposti
ad un comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di
Sicurezza. Né va dimenticato che persino il ricorso alla legittima difesa
nel caso di "un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite" è
riconosciuto per un tempo limitato e circoscritto, vale a dire "fintantoché
- come precisa testualmente l'art. 51 - il Consiglio di Sicurezza non abbia
preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza". Principi
e norme questi, come l'art. 11 della nostra Costituzione, da considerare
superati che possono essere sacrificati sull'altare di una malintesa "real
politik"? Nemmeno per sogno: acquisizioni di civiltà che, specialmente di
fronte alla bozza di risoluzione anglo-americana, vanno rilanciate con
forza per favorire l'avvento di tempi meno barbari di quelli che stiamo
vivendo.

Brindisi, 28 maggio 2004

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