Noi pacifisti nell'inferno di Baghdad
L'ultima puntata dell'orrore iracheno - il rapimento di operatori umanitari - pone domande non più eludibili. Servono analisi e proposte: dobbiamo capire e agire, e in fretta. L'ultimo rapimento di Baghdad non è stato un fatto «occasionale», favorito da circostanze, da occasioni che lo hanno reso possibile. E' stato preparato, organizzato, premeditato, voluto. Perché? E' possibile che Simona Torretta e Simona Pari siano state rapite in quanto italiane. Nel settembre del 2002 venne lanciata in Italia la campagna «Fuori l'Italia dalla guerra». Si disse, allora, che il ripudio della guerra sarebbe stato un atto di etica e di civiltà, oltre che di rispetto per la Costituzione. Ma si disse anche che l'Italia non avrebbe potuto imboccare a senso unico la via della guerra. Perché quella é sempre una via a doppio senso, e a carreggiate multiple: mentre si esporta guerra, la si sta anche importando, anche se si cerca di nasconderlo. Contro la Costituzione, contro il diritto internazionale e contro la volontà della maggioranza degli italiani il parlamento e il governo italiani hanno deciso invece di portare il nostro paese in guerra, in questa guerra. Le nostre truppe sono parte della forza di aggressione al popolo iracheno, e possono continuare a restare in Iraq solo se sparano contro gli iracheni. Ci siamo dentro fino al collo, oggi il nostro paese e i suoi cittadini sono considerati nemici e quindi esposti alla ritorsione. Così finisce che un essere umano possa diventare un bersaglio solo perché italiano. Adesso siamo in guerra, e iniziano le vittime anche dalla nostra parte. Non solo tra i «nostri ragazzi» militari comandati ad essere occupanti. Perfino tra gli operatori di pace. Italiani: basta la parola.
Oppure il senso dell'ultimo odioso atto è un altro? In Cecenia, nel paese che «l'amico Vladimir» ha ridotto a un cumulo di macerie il governo russo decise alcuni anni fa di non volere testimoni scomodi, possibili fonti di informazioni sgradite. L'assassinio di sei operatori umanitari della croce rossa internazionale - freddati nel sonno a Grozny con pistole col silenziatore - ebbe l'effetto di far evacuare dalla Cecenia tutte le organizzazioni umanitarie. Obiettivo raggiunto. E se così fosse anche ora? Se questa fosse la strategia prodotta dagli ultimi eventi, dal rapimento dei due giornalisti francesi, dall'assassinio di Enzo Baldoni? Non ci sarebbe da stupirsi. Chi fa il tiro a segno sui civili, chi spiana villaggi con le bombe, chi ha creato Abu Ghraib (e Guantanamo) non vede certo di buon occhio la presenza in Iraq di operatori di pace, né di giornalisti che non siano embedded. Rendere la loro scomoda presenza sempre più a rischio, perfino eliminarla: può essere benissimo l'obiettivo dell' «amico George», come lo è stato per l'amico Vladimir. «Non disturbate il manovratore». E via tutti. E' successo in Cecenia, è successo in Afghanistan, e lo stesso tentativo potrebbe essere in atto in Iraq. Ciò implicherebbe, naturalmente, dirette e pesanti responsabilità dei servizi Usa e probabilmente anche dei paesi che sostengono l'aggressione statunitense, inglesi e italiani in prima fila. Nel mondo dei servizi segreti, chi fa che cosa e chi sta con chi non è mai chiaro. Ne sia dimostrazione il fatto che tutti i servizi si vantano di avere confidenti informatori e spie nel campo avverso, il che vuol dire che sono tutti permeabili, manovrabili.
Ma c'è anche un'altra ipotesi. Che il tiro a segno e il rapimento di persone di pace siano, semplicemente, un altro sintomo - gravissimo e con prognosi infausta - del cancro della guerra. Altro che civiltà e democrazia: quello cui stiamo assistendo in Iraq è un tragico e deprimente esempio di barbarie. E' una guerra dove opera, con significativa frequenza, anche il terrorismo kamikaze. Se ne parla comunque troppo poco, e non a caso. Non si tratta di un elemento «tecnico» - chi non ha a disposizione aerei senza pilota, finisce col fare da pilota a una cintura imbottita. C'è molto di più. C'è la decisione in molti di considerare la propria vita «a perdere», di uccidersi mentre uccide. Quando si arriva a quel punto, quando non si ha più alcun rispetto per la propria vita, perché dovrebbe interessare il destino di chiunque altro? Quella che si innesca è allora una catena di disumanità, ferocia, odio. Ogni chiave di lettura ha un senso, e forse non c'è una ragione soltanto. Per certo, lo scenario che abbiamo davanti é agghiacciante. Siamo entrati in un tunnel: ci ritroviamo in mezzo a una guerra pericolosissima che la maggior parte dei cittadini non vuole per molte ragioni, per esempio perché è un film già visto e non a lieto fine. Invece noi, oggi, ci siamo dentro, ci ha portato il «club degli amici».
Non sono stati i soli, purtroppo. A favore della aggressione all'Afghanistan votò oltre il 90% dei parlamentari, e ancora oggi alcuni leader di coloro che si preparano - o aspirano - a governare (il termine «opposizione» mi sembra davvero fuori luogo) rivendicano la giustezza di quella decisione. Prima di questo governo di centrodestra, ci aveva portato in guerra il governo di centrosinistra. E in un modo ancora più devastante, se non altro per le coscienze. Siamo stati trascinati in una guerra «umanitaria». Non si è trattato solo di una menzogna volgare; la teoria della guerra umanitaria di dalemiana memoria è la più vigliacca espressione di razzismo. Perché autorizza in nome dei diritti umani a uccidere altri esseri umani considerati evidentemente inferiori, visto che non si pensa a proteggere i loro diritti umani, primo tra tutti quello di essere vivi e di restarci il più a lungo possibile. Una volta formulata e praticata, la «guerra umanitaria» è una rottura con il pensiero sociale e civile degli ultimi due secoli, e trova compimento e sviluppo nella «guerra preventiva». Se è lecito uccidere per i diritti umani, perché non farlo per gli interessi nazionali o per garantire il tenore di vita dei cittadini Usa? Anche interessi nazionali e tenore di vita sono, in fondo, «diritti umani». E se è lecito ammazzare, perché aspettare? Lo si faccia il prima possibile, nel modo (per loro) più indolore ed efficiente.
Uniti nel portarci in guerra. E oggi uniti «contro il terrorismo». Uniti nel raccontarci la bugia più grande, che la guerra sia qualcosa di diverso dal terrorismo, e il terrorismo dalla guerra. La chiamano «unità nazionale». La definirei piuttosto una sintonia di casta, come successe ai tempi della guerra contro l'Afghanistan. Il paese invece, i cittadini, sono perlopiù da un'altra parte, non credo proprio siano d'accordo sull'essere in guerra. Ma è la casta a decidere. Nel nostro paese c'è ormai così poca democrazia che nessuno pensa di consultare i cittadini sulla decisione più importante che pone a rischio la loro stessa vita: la guerra o la pace. Come la pensano gli italiani? Perché non ce lo chiedono? Sarebbe semplice ma non credo succederà, la casta non ama rischiare brutte sorprese.
Il movimento per la pace è chiamato oggi a un compito decisivo: elaborare nuove forme di organizzazione dei cittadini e nuove strategie, perché in Italia possa tornare a crescere la democrazia, si rispetti la Costituzione, si inizi a percorrere il cammino del dialogo e della non-violenza, abbandonando quello del razzismo e della bestialità. Nessuno farà regali, non facciamoci illusioni. Il ripudio della guerra, che impone il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, non verrà dall'«unità nazionale». Da lì, finora, sono venute solo la teoria e la pratica della guerra. Il movimento per la pace sono milioni di persone che vogliono tornare - o forse incominciare - a essere cittadini, non semplici consumatori o strumenti del consenso. E che credono nella democrazia come strumento per realizzare i diritti umani, perché solo nel pieno rispetto dello sviluppo della persona, e quindi di tutti gli esseri umani, sta la condizione indispensabile per la pace. Dall'altra parte sta chi pensa che la democrazia sia un puro gioco elettorale, che i diritti umani siano un optional, e che si possa ammazzare e torturare a piacimento. Sta al movimento per la pace fare in modo che nessuno, in futuro, possa considerare i nostri concittadini, e noi stessi, come «nemici». Lo deve anche a tutti coloro che hanno perso o che stanno rischiando la vita per la guerra. Lo deve anche a Simona Torretta e Simona Pari, che speriamo di vedere libere al più presto, con i loro colleghi iracheni.
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