Conflitti

E' venuto il momento di prendere in considerazione il ritiro dall'Iraq

Editoriale del Financial Times
12 settembre 2004
Fonte: Financial Times


Questa settimana una pietra assai macabra e' stata posata in Iraq. Fino ad ora
piu' di 1.000 soldati Americani sono stati uccisi da quando l'invasione del
paese guidata dagli Stati Uniti e' cominciata quasi 18 mesi fa. La stragrande
maggioranza di loro ha perso la vita dopo che il presidente George W. Bush ha
proclamato la conclusione delle maggiori operazioni militari durante quella sua
adesso infame passerella fatta in nome della "Missione Compiuta" nel Maggio
dell'anno scorso.

Durante l'arco di tempo che e' seguito, un numero sconosciuto di quelli che per
la maggior parte erano civili Iracheni, certamente non meno di 10.000 e
possibilmente tre volte tanto quel numero, sono morti, e centinaia di piu' ne
stanno morendo ogni settimana. Dopo un'invasione ed un'occupazione che aveva
promesso loro la liberta', gli Iracheni hanno visto la loro sicurezza
volatilizzarsi, il loro stato fatto a pezzi e il loro paese frammentato in un
arcipelago fuori legge dominato da milizie, banditi e rapitori.

Il processo politico di transizione, destinato a condurre alla creazione di una
assemblea costituente e alle elezioni generali il prossimo anno, e' stato
minato alla base perche' la nervosa autorita' di occupazione dominata dagli
Stati Uniti ha insistito a scegliere varie permutazioni di governatori Iracheni
ad interim, principalmente fra esiliati o espatriati che non godono di alcuna
stima fra la loro gente. Qualunque cosa pensassero gli Iracheni degli Americani
nel momento in cui questi hanno invaso il loro paese - e quello che questi
politici emigré hanno detto a Washington non e' mai stato quello che gli
Iracheni stavano realmente pensando - una stragrande maggioranza di loro ora
guarda alle forze Statunitensi come a degli occupanti piuttosto che a dei
liberatori e li vuole fuori dal paese.

D'altra parte lo spiacevole periodo che e' seguito ad una guerra vinta tanto
velocemente e' stato cosi' intensamente pasticciato, che gli Stati Uniti hanno
finito per dissipare le ultime vestigia del suo costantemente esiguo appoggio
alleato, in un momento in cui l'Iraq ha bisogno di ogni possibile aiuto che e'
in grado di ottenere. L'occupazione ha perso il controllo di grandi fasce del
paese. Avendo sentenziato che tutti coloro che hanno vissuto e lavorato in Iraq
sotto Saddam Hussein portano sulle spalle un certo grado di responsabilita'
collettiva, i viceroy di Washington hanno epurato le forze armate del paese,
l'amministrazione civile e le istituzioni al punto di spezzare la spina dorsale
del paese, mettere ai margini le forze politiche interne, piazzare in posizione
secondaria molti di quelli che hanno le capacita' necessarie a ricostruire i
servizi pubblici dell'Iraq e, naturalmente, hanno finito per dare impulso ad
una insurrezione che le forze Statunitensi devono ancora propriamente
identificare, per non parlare del fatto che non sono in grado di contenere.

Ci sono segnali che indicano che i funzionari degli Stati Uniti stanno
cominciando a "capirla" - nella frase che con fare condiscendente Donald
Rumsfeld, segretario della difesa Statunitense, ha usato questa settimana per
caratterizzare la comprensione degli Iracheni della situazione riguardante la
sicurezza. Ma se sono sempre piu' consapevoli che quello che hanno fatto in
Iraq e' un disastro, sembrano molto distanti dal sapere che cosa fare a questo
proposito.

La domanda fondamentale che dobbiamo porci e' questa: la continua presenza delle
forze militari Statunitensi in Iraq e' parte della soluzione o parte del
problema?

Come potenza occupante, gli Stati Uniti portano sulle spalle la responsabilità
dell'Iraq secondo il diritto internazionale e hanno il dovere di tentare di
lasciarlo in condizioni migliori di quando l'hanno occupato. Ma non c'è un solo
segno che sembri indicare che questo e' cio' che sta accadendo.

E' quindi venuto il tempo di prendere in considerazione se un ritiro organizzato
degli Stati Uniti e delle restanti truppe alleate, in tandem con una cessione
realizzabile della questione sicurezza alle forze Irachene e ad un processo
politico legittimo e inclusivo, possano fornirci di una via d'uscita al caos
attuale.

Dovendosi confrontare con un piano di ritiro, quegli Iracheni che al momento si
sentono indifesi sapranno che l'occasione di costruire un futuro migliore giace
nelle loro mani.

Si consideri la questione sicurezza. Le forze Irachene vengono ricostruite
affinche' assumano la direzione dei compiti sulla linea del fronte. Questo e'
un lavoro lento, ma non e' il vero problema. Il problema e ' che quelle forze
gia' addestrate non possono operare accanto ad un esercito Statunitense che
giornalmente scarica una pioggia di tonnellate di proiettili e di potenti
esplosivi sui loro compatrioti.

Ogni volta che c'e' un assedio di Fallujah o di Najaf, con gli Stati Uniti che
fanno uso della loro potenza di fuoco che uccide centinaia di civili, queste
forze Irachene si fondono. Fino al momento del ritiro finale, dovrebbe essere
introdotta una politica di limitazione delle operazioni militari, imposta
soprattutto a quei comandanti Statunitensi che hanno operato senza consultare i
propri superiori, e tanto meno il governo Iracheno sovrano a livello
nazionale.

Politicamente, se le elezioni dell'anno prossimo vogliono avere una qualunque
possibilita' di riflettere la volonta' della gente Irachena, il processo deve
essere aperto. Il congresso nazionale o la proto-assemblea del mese scorso e'
stato monopolizzata da politici espatriati allineati con il governo ad interim
di Iyad Allawi. L'unica maniera in cui coalizioni nazionali possono essere
tessute dalla eterogenea mescolanza religiosa e etnica dell'Iraq e' quella di
includere nel processo politico l'opposizione all'occupazione. Questo significa
la negoziazione con gli insorgenti, probabilmente attraverso leader religiosi
della statura dell'Ayatollah Al-Sistani. Inoltre significa un'amnistia, che
dovrebbe aiutare le autorita' Irachene ad acquisire legittimita' sufficiente
per schiacciare i jihadisti e gli altri resistenti.

Nel migliore dei casi, gli Stati Uniti accompagnerebbero il ritiro dichiarando
di non avere intenzione di stabilire delle basi in Iraq e volendo invece
facilitare accordi di sicurezza regionali. Questo sarebbe un fattore di
maggiore stabilita' rispetto alla corrente politica prepotente e prevaricatrice
nei confronti di stati vicini quali l'Iran e la Siria, i cui confini con l'Iraq
gli Stati Uniti non possono controllare in alcun caso.

Niente di tutto questo sara' meno che caotico. Ma chiunque sia fra George Bush e
John Kerry a vincere l'imminente elezione, alla fine gli Stati Uniti dovranno
fare qualcosa come questo. Il caos e' un grande rischio, e attraverso la storia
le potenze occupanti hanno fatto riferimento a quel rischio come alla ragione
per il loro rimanere. Ma il caos e' gia' qui e la potenza che ne e' in gran
parte responsabile deve adesso cominciare i preparativi per farsi da parte e
lasciare che siano gli Iracheni a provare ad emergere da esso.

Note: http://tinyurl.com/5h4ce

Tradotto da Mauri Sesler - A Cura di Peacelink
PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.7.26 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)