Mozambico: tra elezioni e psicanalisi dell’uomo bianco.
L’affluenza scarsa nonostante gli inviti dei media a votare.
La partecipazione composta nei seggi elettorali, gli osservatori elettorali dell’Unione Europea che affermano un corretto svolgimento del processo, nonostante qualcuno abbia sottolineato un maggior spazio di propaganda elettorale dedicato alla Frelimo (il partito di maggioranza attualmente al governo) soprattutto nella televisione nazionale.
Lo spoglio sta avvenendo, il risultato provvisorio vede proprio il candidato delle Frelimo, Guebuza, avvicinarsi alla Presidenza del paese.
Il Mozambico rurale non è andato a votare. Ha approfittato delle piogge per zappare, per lavorare i campi in questa stagione dura, ha preferito contare sulle proprie forze, invece di recarsi nei distretti dove c’erano i seggi.
Un altro Mozambico invece, in fila ordinato ha atteso il proprio turno per inzuppare l’indice nell’inchiostro e dare la propria preferenza a chi vuole sia a guidarlo nei prossimi anni.
Nei due giorni di elezioni (1 e 2 dicembre), la calma si è impossessata delle città. Maputo solare, sembrava addormentata ed assorbita da questo evento. Negozi chiusi, strade vuote, solo la polvere e qualche mendicante agli incroci. La partecipazione Democratica alla vita del paese, ha trasformato questa capitale del Sud del mondo in una torrida Roma in un giorno qualsiasi d’Agosto.
Ora si attendono i risultati definitivi.
È un attesa calma, quasi disinteressata. Si è atteso e si attende di nuovo, la campagna elettorale ha risvegliato gli animi, ha animato le strade e regalato il fragore frenetico della festa, i volti onnipresenti dei candidati al potere hanno riempito le strade e le magliette, il potere degli slogan ha convinto e fatto discutere. Tutto ciò è ora scivolato in una composta attesa, dove i clacson tacciono e le luci smettono di brillare.
La gente ricomincia a lavorare, ad occupare poltrone, a correre sugli shapa (i mini-bus), a transitare nei mercati di nuovo affollati, e a fare la fila negli ospedali. Sono tornati i giorni qualsiasi, dopo che si è consumato questo evento.
Una buona fetta del Mozambico rurale, è rimasta sulla propria terra, non ha smesso di preoccuparsi di sfamare i figli, non ha avuto il tempo di distrarsi dal duro lavoro che porta il pane, non ha avuto i soldi per recarsi nei seggi. Era malato steso in un dispensario sperduto nel mato in attesa dei farmaci anti-retrovirali, o aveva il colera, o la tubercolosi. E questa è una grande fetta del Mozambico.
Il mondo opulento del nord aspetta i risultati delle elezioni, ma non tutto, solo quella parte minuscola di quel mondo opulento che sa dov’è l’Africa, che conosce qualche capitale lontana di questo immenso continente. Perché nonostante Internet, la televisione, la stampa e la possibilità di ricevere informazioni su tutto in ogni momento, c’è la potenza dell’indifferenza di un mondo che ancora ci rappresentiamo come finisse sul Bosforo o ai Dardanelli.
Alcune eccezioni: l’Iraq, il Medio Oriente, la Cina economica, l’Africa da safari e della musica al ritmo di bongo, che è l’ultima trovata in un occidente annoiato, che si limita a regalare qualche servizio al Darfour e qualche centesimo d’elemosina ai padri comboniani del Ruanda.
Il Mozambico sarà in qualche trafiletto, forse in qualche servizio ad hoc, forse se ne parla quando ci viene Veltroni con gli studenti, quando “può” fare notizia. Quando possiamo collocarlo concettualmente in uno spazio determinato e codificabile dalle nostre abitudini e dai nostri valori.
La verità è che l’Africa non ama far parlare di se, perché non ha più la voce per gridare, né le lacrime per destare compassione. Resta un mondo lontano, che ci rifiutiamo di capire, che abbiamo paura di capire.
È un’insieme di culture radicali che il nostro limitato orizzonte percettivo banalmente classifica in formule come etnia, tribù, fondamentalismo. È il nostro orizzonte di ignoranza che offende un continente ricchissimo e difficile, con storie e contraddizioni, che ci pone in scacco e ci seduce, che ci rifiutiamo, ahimé, di sforzarci di capire.
Questo a discapito di noi stessi, di un arricchimento che passerebbe certamente per il calvario di uno scontro tra differenze, tra alterità. Ma il presente è una sfida per noi tutti, che non si gioca ai ballottaggi, ma a suon di tragedie inascoltate, di interrogativi che cercano disperati una risposta.
Il Mozambico è sulla strada della Democrazia, si è detto, e noi speriamo che lo sia davvero. Ma quanti si sono domandati cosa vuol dire democrazia qui? Cosa significa conciliare il risultato di una storia tutta europea con un miscuglio di 16 lingue, tradizioni e regole sociali così diverse?
Quanti di noi si sono chiesti se la Democrazia è la Panacea di tutti i mali, o se ci sono dei mali trasversali, che attaccano le giunture di questo mondo unito sotto il segno del denaro, mali invisibili alle telecamere, che si consumano lontano, in un lontano sempre più vicino, che si affaccia con le zattere, i treni della vergogna, i passaggi illegali di frontiere.
Rispondiamo con le sbarre e con il filo spinato alle diversità, alla povertà, alla miseria. Finché per caso non ci capita di guardarla negli occhi, di passarle al fianco.
E ce ne accorgeremo solo se non sarà troppo tardi per il neurone dello stupore, se non sarà ormai troppo tardi per essere meravigliati del diverso, e se l’intolleranza verso l’ingiustizia riuscirà ancora a fare breccia dentro di noi, ma non quella fatta di parole, bensì di sguardi e miserie veri, con un nome.
L’ingiustizia delle armi, dei profughi. Di coloro che non avendo più nulla, hanno dio così vicino. Un dio che si nutre dei loro corpi e dei loro giorni, e non il dio sospeso e timido del nostro limbo dei vincitori.
Rispondendo con le sbarre e il filo spinato, con l’omertà e l’inazione (o peggio l’azione cattiva, quella degli interessi privati sulla sofferenza altrui), facciamo prima di tutto un torto a noi stessi. Alla nostra crescita, al nostro destino ineluttabile, al senso dell’esistenza che è mettersi in gioco, confrontarsi. O è la paura di scoprirci deboli, fragili, non più abituati alla morte, alla povertà, alla fatalità. Preferiamo la via sorda dello stordimento mediatico, delle emozioni simulate, della protezione totale, globale, delle emozioni di un mondo di cellofan, lontano dalla terra e dall’essere umano.
Quant’è che non camminiamo scalzi, che non sentiamo la terra umida sotto i piedi? Che non rinunciamo a calcolare un istante lasciandolo all’imprevisto, al tempo senza tempo degli africani? Quanto è che non rifiutiamo di essere soggiogati dalle nostre stesse regole, dai nostri tabù?
“Un altro mondo è possibile” può essere adesso capovolta: un altro mondo gia c’è, è che non lo vediamo o non siamo in grado di riconoscerlo: le nostre autodifese lo escludono a priori, lo cancellano. Il Norton cerebrale lo rifiuta – delete- è già nel cestino.
Bisogna festeggiare il trionfo dell’altro, del fratello africano nelle sue sfide quotidiane verso la pace e la propria realizzazione, certo. Democrazia e diritti dell’uomo possono essere uno strumento, valido, se vengono reinterpretati a seconda dei contesti, se mediati da coloro che ne diventano portavoce e protagonisti, se offrono nuove possibilità condivise e accettate.
I Mozambicani intanto aspettano il verdetto dell’urna, ed anche noi che siamo quaggiù, aspettiamo con loro, e vogliamo credere nell’idea di un paese che ce la può fare.
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