Voci dall'Iraq
Scoprire la realtà dell’Iraq con i propri occhi. Ma soprattutto, trovare un canale per raccontarla a chi è costretto ad affidarsi ai resoconti dei telegiornali per avere un’idea di cosa stia succedendo. E’ questa l’idea con cui tre mediattivisti sono partiti nel giugno scorso dalla Turchia, attraversando il Kurdistan iracheno fino a raggiungere Baghdad. L’11 gennaio scorso, durante una serata su “Mediattivismo in Iraq” al CSA Il Molino di Lugano, ho avuto l'occasione di raccogliere la testimonianza di uno dei tre, Michel (alias Sansibar), tra i fondatori di Indymedia Svizzera.
Il viaggio parte dalla città turca di Diyarbakir e prosegue lungo il fiume Tigri fino alla capitale. Ad ospitare Michel e i suoi colleghi sono perlopiù gruppi di attivisti politici iracheni, per la maggior parte membri del disciolto Partito Comunista: ”Le persone politicamente impegnate non sono molte, ma hanno una gran voglia di darsi da fare; credono che la buona volontà possa ancora cambiare le cose. Ad esempio in alcune città hanno organizzato l’occupazione di edifici appartenuti al governo di Saddam, trasformati in comuni in cui chi è rimasto per strada [a causa dei bombardamenti] può trovare alloggio.” Purtroppo l’umore della maggioranza della popolazione è ben diverso: “La gente sembra aver perso ogni speranza: dopo la caduta del regime erano tutti convinti che le condizioni sarebbero migliorate, e la delusione è stata bruciante”.
Ciò che manca maggiormente è la normalità del quotidiano: ”Anche le cose più ovvie diventano quasi impossibili, soprattutto gli spostamenti all’interno delle città; le donne non possono più neanche prendere un taxi senza rischiare di essere rapite”. La violenza infatti non è rivolta solo verso gli stranieri: “I guerriglieri islamici non fanno solo attacchi contro la green zone o gli occidentali, ma colpiscono anche tra la popolazione locale. Per fare un esempio, un negoziante cristiano mi ha raccontato che la bottega vicino alla sua era stata fatta esplodere perché il proprietario era un iracheno non musulmano. Certo, la vita è molto più pericolosa per gli occidentali, ma le vittime tra gli iracheni sono molto più di quanto i resoconti dei telegiornali facciano pensare”. Questo obbliga chiunque a preoccuparsi continuamente della propria incolumità: “Alle persone con cui abitavo non piacevano le armi, ma erano costrette a portarne per sentirsi sicuri. E’ la legge della guerra e chi non la accetta paga pegno”.
Un discorso a parte merita la condizione dei giornalisti nell’epoca post-Saddam: “Sotto la dittatura ovviamente non esisteva alcuna libertà di stampa, ma la situazione non è migliorata granché dopo l’arrivo degli americani. Ora sono i gruppi radicali islamici a fare pressioni perché alcune cose non vengano scritte sui giornali: anche loro come tutti i violenti non amano la libertà di parola. Ad esempio mi ricordo di una trasmissione radiofonica che prevedeva telefonate in diretta degli ascoltatori: l’esperimento era audace, ma presto censure e pressioni l’hanno ridimensionato trasformandolo in un prodotto molto superficiale”. Per chiarire la situazione Michel racconta la storia di una redattrice di un quotidiano locale che ha conosciuto a Baghdad: “Il giornale per cui lavora è stato appena riaperto, con la sponsorizzazione di una casa automobilistica giapponese che però non sembra occuparsi dell’attività redazionale. Così lei cerca di sfruttare l’opportunità ritagliandosi spazi di libertà per raccontare davvero cosa succede, anche se sa perfettamente che dire ciò che si vede e ancor più ciò che si pensa è molto pericoloso. Soprattutto per una donna.”
Lo scopo del viaggio di Michel e dei suoi colleghi era realizzare delle trasmissioni radio in streaming via internet dalle zone di guerra, in particolare da Baghdad: “Ascoltando i resoconti sul conflitto iracheno di radio e tv non potevamo fare a meno di notare che i giornalisti non sembravano minimamente interessati alla voce delle strade, della gente normale che convive giorno per giorno con la guerra. Così abbiamo deciso di partire, girare per il paese ed offrire alle persone un canale attraverso cui parlare. Non avevamo un’idea esatta di cosa avremmo fatto, solo la voglia di provare ad offrire un punto di vista diverso sulla situazione irachena”.
La prima concretizzazione del progetto è avvenuta in una cittadina nel Kurdistan, dove il gruppo di mediattivisti venuti dalla Svizzera ha messo in piedi una specie di radio comunitaria, luogo di riunione e di condivisione di esperienze, trasmessa via etere nella zona circostante e via Internet fino in Europa: “In questa regione ci sono molte stazioni radiofoniche, ma sono tutte controllate da gruppi etnici, politici o commerciali; noi abbiamo cercato di proporre qualcosa di radicalmente diverso, organizzando anche una specie di scuola per streamers in modo che le trasmissioni non si interrompessero con la nostra partenza.“
Anche da Baghdad hanno tentato un esperimento simile, non senza difficoltà: “Tutto era problematico, a partire dal lato tecnico: dovevamo collegarci al web dagli Internet Café, per fortuna abbastanza diffusi nella capitale irachena perché molto frequentati dai giovani, sperando che i gestori ci autorizzassero ad installare il programma di gestione dello streaming sui loro computer. Le comunicazioni via satellite erano molto difficoltose, collegarsi era arduo e le connessioni cadevano continuamente. Ciononostante siamo riusciti ad organizzare tre streaming verso l’Europa, oltre a diverse trasmissioni via etere a diffusione locale”. La diretta più significativa è stata indubbiamente quella due giorni dopo gli attentati alle chiese cristiane: “Camminando con i microfoni nelle strade vicino alle chiese distrutte siamo rimasti stupiti da quanto la gente avesse voglia di raccontare la propria esperienza dell’evento, cosa aveva visto e provato. Ma soprattutto ci siamo resi conto di quanto l’odio interreligioso sia una costruzione forzata dei leader integralisti; in proposito due capifamiglia vicini di casa mi hanno detto: “A noi non importa dove i nostri vicini vanno a pregare, perché sappiamo che sono delle brave persone. Vogliamo solo vivere in pace”.
Michel è tornato in Svizzera ormai da mesi, ma continua a pensare all’Iraq: “Sarei dovuto restare, tre mesi sono troppo pochi per capire davvero qualcosa. Ma sono un essere umano, non mi vergogno di ammettere che mi sono fatto vincere dalla paura”. L’idea di installare una radio comunitaria a Baghdad però non lo abbandona: “Più ci penso e più vorrei ripartire, tornare laggiù e ricominciare da dove ho interrotto, ma mi mancano i mezzi e soprattutto i fondi. Spero di trovare qualcuno con la voglia di darmi una mano e lo spirito giusto.”
Se qualcuno si riconosce in questa descrizione, o semplicemente vuole saperne di più dalla voce del diretto interessato può scrivere a tau_sen@yahoo.com .
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