È finita l'ultima corsa del Wto
Questa volta non è stato qualche diplomatico africano a decretare la fine dei negoziati dell'Organizzazione mondiale del commercio, come già successo a Seattle nel 1999 e a Cancun nel 2003, ma i rappresentanti dei governi più potenti del pianeta e il direttore generale della Wto in persona, Pascal Lamy. Al termine dell'ennesimo incontro ristretto del «Gruppo dei 6» - Stati Uniti, Unione Europea, Australia, Giappone, Brasile e India - arriva una clamorosa sospensione sine diedel ciclo negoziale lanciato a Doha nel novembre 2001, in un clima politico internazionale a senso unico, in cui l'amministrazione Bush legava il bisogno di nuove liberalizzazioni a una maggiore sicurezza globale. Dopo la crepa di Seattle e il trambusto di Cancun, è la caduta definitiva della Wto, che lo scorso dicembre ad Hong Kong era riuscito solo in extremisad evitare la conclusione di ieri. La fine di luglio rappresentava la scadenza ultima per definire le modalità negoziali negli spinosi dossier su agricoltura e prodotti industriali, poiché entro l'anno si sarebbero dovute raggiungere le cifre precise di riduzione delle tariffe prima della scadenza del super-mandato negoziale del Presidente Bush. Un mandato conferito da un Congresso Usa che non era ancora protezionista come è diventato ultimamente, e che attualmente finirebbe per bloccare ogni nuovo accordo della Wto.
Come sempre, quando salta il circo della Wto, scattano le accuse tra chi fino all'ultimo era pronto a infinite concessioni pur di raggiungere l'accordo. Il capro espiatorio questa volta sono gli Stati Uniti e non l'Unione Europea, come successe a Cancun. A Susan Schwab, rappresentante di Bush, si imputa di non aver voluto concedere quel taglio ai propri sussidi interni in agricoltura necessario per sbloccare l'apertura dei mercati agricoli europei e quindi di quelli dei prodotti industriali nelle economie emergenti del Sud del mondo. Il negoziato sui servizi sarebbe stata un'importante appendice per l'industria occidentale, anche se va detto che formalmente potrebbe continuare a prescindere dal collasso dell'agenda di Doha. Una volta quadrato il cerchio tra i Paesi che contano, con il silenzio-assenso della super-potenza cinese, allora si sarebbe condito un'ennesimo accordo di selvaggia liberalizzazione dei mercati mondiali con qualche irrisoria misura di sviluppo per i Paesi più poveri, da sempre poco ascoltati nelle stanze segrete di Ginevra.
Per la società civile internazionale è senza dubbio una vittoria, dopo la battuta di arresto di Hong Kong di pochi mesi fa, causata dal «tradimento» delle nuove potenze del Sud, desiderose di un intesa. Da Cancun in poi la richiesta dei movimenti sociali è stata «nessun accordo è meglio di un pessimo accordo», e così è stato. Come molti ministri hanno fatto capire nelle «calde» conferenze stampa ginevrine, è ormai a rischio l'intero sistema multilaterale commerciale come concepito nella Wto dai vincitori della guerra fredda. E' la crisi del liberismo che diventa palese anche nel tempio più grande di questo dogma economico. Con lo stop Wto, destinato a durare probabilmente a lungo, entriamo in una nuova era della globalizzazione, segnata per ora da un caos multipolare e dall'impasse della super-potenza a stelle e strisce. Usa e Ue già da mesi concepivano la fine dell'istituzione ginevrina e la necessità di muovere aggressivi negoziati su scala bilaterale e regionale che andassero ben oltre il tetto minimo fissato dalle liberalizzazioni siglate Wto. I Paesi emergenti, seppur sposando la logica liberista, hanno riscoperto un ruolo per lo Stato-Nazione, soprattutto India e Cina, e nuove ambizioni di integrazione regionale, come l'America Latina.
E' vero che il «grande Sud» avrebbe ancora bisogno di uno spazio multilaterale, in cui vincere è più semplice, ma oramai anche per le nuove potenze del pianeta risulta ineludibile affrontare la crisi del liberismo e il bisogno di alternative. Peter Mandelson, commissario europeo al commercio, ha parlato di «ultima uscita» persa sull'autostrada. Per la società civile globale è chiaro che l'autostrada deve essere ricostruita dalle sue fondamenta. Chi in Italia a parole difende il multilateralismo e la protezione dei diritti umani fondamentali, come il ministro per il Commercio Internazionale Emma Bonino, dovrebbe trarne finalmente le debite conseguenze. Oggi ha vinto chi alla vigilia del Round del millennio chiedeva all'organizzazione principe della globalizzazione liberista di fermarsi.
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