Dole, i primi 50 anni della banana socialmente irresponsabile

24 settembre 2006
Monica Di Sisto
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Dole, i primi 50 anni della banana socialmente irresponsabile

A leggere i dati superficialmente si potrebbe pensare a una massiccia invasione di alieni dalle uniformi d’oro. Ma la vicenda è molto meno misteriosa ed avventurosa di quanto sembri. Non ce ne accorgiamo, però sono intorno a noi: ogni anno 127 milioni di scatoloni da 18 chili di banane griffati dalla multinazionale statunitense Dole partono dalle grandi piantagioni di Ecuador, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Ecuador, Colombia, Camerun, Costa d’Avorio e Filippine e arrivano, attraverso lunghi viaggi in navi e camion frigoriferi, sui banchi di mercati e supermercati di tutto il mondo e di lì nelle nostre case. La Dole giovedì scorso ha celebrato il suo cinquantesimo compleanno in Costa Rica con un record di profitti e traguardi tagliati: 1.347 milioni di dollari di guadagni grazie alle banane, oltre 200 prodotti venduti in 90 Paesi, 36mila persone al lavoro e 23mila stagionali presi quando serve. Era nata nel 1851 nelle Hawaii, per produrre ananas, Nel 2005, inoltre, Dole ha realizzato il suo sogno di superare di stretta misura nelle vendite di banane la sua eterna rivale, la Chiquita, grazie al fatto di aver conquistato il controllo di più di un terzo del mercato americano.
Un successo, quello della banana griffata Dole, che nasce anche dall’aver guadagnato la fiducia dei consumatori proclamando la propria responsabilità sociale, certificata persino dal sistema internazionale Social Accountability 8000, le ISO della qualità sociale. Eppure, allo stesso tempo, la Dole è una delle tre transnazionali che operano in America Latina ed hanno il minor numero di sindacati rappresentati nelle loro piantagioni. Sono due i Paesi dai quali proviene la maggior parte delle banane che mangiamo: il Costa Rica e l’Ecuador. Ma l’Ecuador per la Dole ha un certo fascino in più: nell’area è il Paese con i costi del lavoro più bassi. In Ecuador tutti i giorni dell’anno sono buoni per raccogliere banane. Il ciclo comincia quando una nuova pianta nasce da una radice tagliata della sua pianta mamma, e finisce circa un anno dopo quando i frutti vengono raccolti e finiscono su un camion. Sul campo il lavoro ti incastra in una macchina infernale: tagliare i nuovi germogli, spruzzare il vermicida, stendere lunghi teli di plastica tra i banani che crescono perché non si danneggino, coprire i banani con buste di plastica trattate con gli insetticidi e avvolgere i fusti con larghe strisce, potarli o legarli tra loro perché tengano il terreno, tagliare le foglie ingiallite, legare intorno ai fusti altre strisce colorate per distinguerne le fasi di crescita e monitorarle, tagliare infine i frutti e i rami rimasti dopo il raccolto. Anche per chi lavora nell’impacchettamento non va meglio: di solito si lavora in capannoni con il pavimento di cemento o di terra, senza mura, dove in piccole squadre si preparano le scatole di alieni per la spedizione.

L’Ecuador, grazie al costo del lavoro tanto basso, ha raddoppiato i suoi scambi con l’estero negli ultimi vent’anni, diventando il più grande esportatore di banane del mondo e intrappolando in questa filiera tra le 200 e le 250 mila persone. «Se provano a sindacalizzarsi vengono licenziati» racconta ad Human Rights Watch Martín Insua, ex ministro del lavoro ecuadoriano, rispetto ai lavoratori delle piantagioni. «Non c’è nessun’altra azienda, poi, che li riassumerebbe. I lavoratori temporanei ancora di più sanno che rischiano il licenziamento. Anche solo se ci provano sono fuori». Solo negli ultimi mesi centinaia di braccianti delle piantagioni che forniscono Dole sono stati licenziati, centinaia sono ancora in sciopero. Ma c’è di più: meno della metà dei bambini dei villaggi che vivono di banane sono ancora a scuola all’età di 14 anni. Quando gli chiedi perché abbiano lasciato la scuola per il lavoro, ti rispondono che devono aiutare le famiglie a comprare cibo e vestiti. I bambini guadagnano poco più di tre dollari per ogni giorno di lavoro, circa un terzo in meno di uno stipendio medio di un bracciante adulto, ma appena un terzo di un salario minimo a rigor di legge. Gregorio Bonilla, un ragazzino intervistato da Human rights watch quando aveva circa quattordici anni, racconta che mentre lavorava in una delle piantagioni che forniscono Dole si è sentito male stendendo i teli di plastica impregnati di insetticida. «Non usavo le protezioni - racconta - ho avuto un capogiro, poi i brividi, sono caduto e sono tornato a casa. Dal dottore no, non ci sono andato». E’ vero: gran parte ma non tutte le piantagioni di proprietà della Dole sono socialmente certificate e soggette a ispezioni, mentre ai suoi fornitori la transnazionale non può che consigliare di certificarsi anch’esse. Ma i piccoli alieni vestiti d’oro viaggiano tutti nelle stesse scatole, hanno tutti lo stesso prezzo e la stessa griffe.

Responsabili o no, decidetelo voi.

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