Riprendiamoci la terra, asset strategico della nuova economia
«E l’economia reale?». Appena sente dire che molti pensano che l’economia vera, quella che conta, è un’altra, quella delle grandi teorie, dei massimi sistemi, delle alchimie finanziarie, Carlo Petrini, fondatore e presidente di Slow Food, scatta in piedi e si precipita verso la libreria, da dove ritorna con un enorme libro. Siamo nel suo ufficio al Lingotto di Torino, lo storico stabilimento della Fiat oggi trasformato in un polo fieristico. La Pista, il circuito sulla terrazza dove un tempo si collaudavano le auto, è oggi sede di un prestigioso ristorante gestito dallo chef che prima era stato cuoco degli Agnelli. Sulle rampe d’accesso quest’anno si è tenuta la presentazione dei vini d’eccellenza prescelti dal Gambero Rosso. Dalle vetrate si vede il via vai della folla che ancora l’ultimo giorno riempie il Salone del Gusto, da lui inventato 12 anni fa, e ora affiancato da Terra Madre, l’incontro mondiale delle comunità del cibo, il più grande farmer market del globo, che ha fatto incontrare intellettuali e pescatori, 250 università e migliaia di contadini. Terra Madre è appunto il titolo del testo che Petrini mostra: 800 pagine in cui si parla delle raccoglitrici di foglie di baobao e bruchi di karitè, in Burkina Faso, i produttori di macchine agricole di Cuba, i coltivatori di piante medicinali del Perù, i produttori e trasformatori di cereali del Michigan, i gelatai del New Jersey, i produttori biologici degli Appalachi centrali e dell’Oregon e California, i panettieri del NordrherinWesftafle, in Germania, i produttori di capperi di Salina.
«Non c’è nessuna multinazionale che fa un fatturato come questo. E’ tutta economia locale, ma non accettiamo più di essere considerati la parte umile, i disgraziati. E questi sono solo 1.600, quelli venuti qui a Torino. Se mettiamo in rete tutti i presidi e le economie locali, la Monsanto deve nascondersi».
Ma quale futuro può avere l’economia locale, quando sono entrati in crisi anche i nostri distretti, considerati modello di sviluppo delle piccole imprese.
«Per economia locale intendo ricostruzione di una economia agricola fortemente radicata sul territorio, con la capacità di interloquire anche con i consumi locali. Dal punto di vista progettuale è una grandissima novità, perché negli Anni 50 la produzione del cibo si è internazionalizzata, realizzando delle assurdità che non sono più sostenibili: far viaggiare cibo fresco da un continente all’altro, consumare energia, distruggere biodiversità, rendere i suoli meno fertili per l’abuso di fertilizzanti e pesticidi, avere monocolture che succhiano acqua in maniera sproporzionata. Ecco che tornare a parlare di economia locale in campo agroalimentare significa sostanzialmente tornare a un rapporto più armonico con la natura, favorendo anche la differenziazione produttiva, creando un rapporto di commercializzazione più vicina al consumatore finale e determinando un principio di tutela dell’ambiente che favorisce anche il turismo, altra ricchezza locale».
Ma che modello di sviluppo possiamo costruire? Cuochi e contadini sostituiranno, facciamo un esempio, la Fiat?
«Il modello Fiat è un modello manifatturiero, diverso da quello agricolo. Che poi questa città sia stata tutta disegnata a immagine e somiglianza di un solo modello lo abbiamo anche pagato. Differenziare i modelli di una regione o città è garanzia di futuro. L’economia della natura non deve sostituire quella del manufatto. Ma garantisce il cibo, non può essere totalizzante, però è primaria. E l’economia primaria è tornata ad avere una centralità strategica perché le risorse stanno finendo. Tra dieci anni non mangeremo computer. Non dico che tutto debba diventare agroalimentare, bisogna però che l’economia agroalimentare sia più localizzata. Ritengo che anche il manufatto prodotto in maniera massiva è insostenibile, ma tanto più lo è l’agricoltura».
La qualità contro la quantità. Resta la questione del rapporto costobenefici. Pietro Citati ha scritto che per avere il piacere di tornare a mangiare un pomodoro con il gusto di quelli che mangiava da bambino pagherebbe anche 20 euro all’etto. Ma chi può permettersi questo lusso?
«La famiglia italiana spendeva nel 1970 il 32% del reddito per mangiare. Oggi la stessa famiglia spende il 16%, la metà. Non parlo di secoli fa, di 35 anni fa. Significa che abbiamo spostato i consumi su altri beni. Per mangiare bene basterebbe far salire la cifra al 1820%. sono calcoli fatti a tavolino. E’ un’opzione di vita. Posso anche decidere di mangiare peggio, di ridurre la spesa fino al 10%. Cosa mangio? Non solo. Più riduco i costi più favorisco le esternalità negative, un concetto economico, non un principio etico, una diseconomia. Se io compro un pomodoro dalla Cina, ottenuto da manodopera schiavizzata, mi costa meno però ho fatto viaggiare una nave che ha consumato energia: questa è una esternalità negativa. Magari comperando quel pomodoro il pomodoro autoctono rischia di scomparire: altra esternalità negativa. Il beneficio economico che l’inquinatore ottiene dall’inquinamento è inferiore al costo economico subito dagli altri membri della collettività. E il cibo è la principale fonte di inquinamento del mondo. Produciamo cibo per 13 miliardi di persone, siamo 6,3 e 800 milioni non mangiano».
Il mercato le sta dando ragione sull’ambiente. Si promuovono i derivati sull’energia da biomasse, le azioni delle aziende produttrici di energia pulita schizzano in alto. Ma intanto i piccoli produttori non reggono alla concorrenze e l’economia globale si basa su una lunga filiera geografica: paesi produttori di materie prime, paesi che fanno i semilavorati, paesi che assemblano i prodotti finiti. Una catena difficile da rompere.
«Non in agricoltura. E’ chiaro che se voglio il caffè lo devo andare a prendere in altri territori, non è logico che io prenda le melanzane, o le pesche da altri territori. E il pomodoro prodotto e comprato sul territorio, nei farmer market, accorciando la filiera, non arriverà a costare più di 3 euro, buono come quello da 20»
Ma è il ritorno all’autarchia?
«Si, lo auspico. Ribadisco, per le coltivazioni locali. Diverso per il caffì e il cacao»
Caffè e cacao sono diventati i protagonisti del mercato globale, sulle soft commodity si gioca in Borsa con strumenti molto sofisticati come i derivati. E il saliscendi dei prezzi è influenzato anche da regimi, penso al Ghana, non certo democratici.
«Dividiamo le cose. Per il prodotto fresco il ritorno alla filiera corta, all’economia locale è una questione strategica. Sulle soft commodity che non fanno assolutamente parte dell’economia locale si applica un’economia di scala assolutamente di rapina. Perché devo tostare tutto il caffè in Europa? Non si può tostare in Guatemala ed esportarlo già bello e confezionato nei sacchetti? Un contadino su una tazza di caffè prende il 2%, su 1 euro 2 centesimi. Se io gli porto il beneficio secco, la tostatura, la vestizione, invece del 2% resta in Guatemala il 42%. Ci sarebbe da rimettere in sesto l’economia del Guatemala e anche del Brasile».
Ma servono interventi sovranazionali di tipo politico. Come si fa di peso a spostare interi cicli produttivi?
«L’intervento politico potrebbe essere solo di ausilio. Terra Madre, al suo secondo appuntamento, dimostra che s’è messa in moto una controrisposta operativa, i protagonisti nelle loro comunità hanno organizzato alleanze, creano lobby. Nel mondo, la metà delle persone è dedita all’agricoltura. E la rete dà loro forza. Hanno scelto questo modello di sviluppo, questa nuova economia. E sarà difficile fermarli».
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