Imprese, Ferrero le vorrebbe responsabili
Il governo dell'Unione riporta in auge un concetto visto sempre con una certa sufficienza in Italia, soprattutto a sinistra: la responsabilità sociale d'impresa. Ci si può affidare alla sola volontà delle aziende, che si dotano di «codici etici» dopo campagne celebri come quelle sulla Nike, per ripulire immagini macchiate da storie di sfruttamento o di inquinamento? Un privato potrà mai mettere le finalità sociali sullo stesso piano dei profitti? Gli ospedali pediatrici di Ronald McDonald's, il clown testimonial degli hamburger globali, cosa contengono oltre la pubblicità? A queste domande ha tentato di rispondere un seminario organizzato al Cnel dal ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, in gemellaggio con il governo francese.
E che gli italiani non si fidino troppo dei privati (nonostante poi Berlusconi prenda voti a man bassa) lo testimoniano le stesse aziende: Giuseppe Schlitzer, della Confindustria, ha spiegato che secondo un recente sondaggio il 65% degli insegnanti del nostro paese percepisce le imprese come agenti «negativi» rispetto alla società. Come dire, i bambini e i ragazzini già dalla scuola verrebbero educati a non fidarsi (qualcuno aggiungerebbe: giustamente). E allora gli imprenditori, tra un'intercettazione Telecom, un furbetto del quartierino e un'obbligazione Parmalat, sarebbero alla ricerca di un'immagine «buona». Ci sono fior di istituti che studiano la Rsi (responsabilità sociale d'impresa), che fissano standard internazionali e codici di buona condotta, con tanto di verificatori che assegnano un bollino di qualità alla fine dell'ispezione. E' sempre più diffusa (ma più in Francia che in Italia) l'abitudine di fornire agli investitori un «bilancio sociale» accanto a quello finanziario, e a quanto ha raccontato Gerard Larcher, ministro francese delegato alle Relazioni del Lavoro, ormai chi investe in azioni ritiene più affidabile sul mercato chi riesca a vantare un buon curriculum sociale. Dunque la responsabilità sociale non sarebbe più solo un imperativo etico - inconciliabile con il taglio dei costi e la massimizzazione dei profitti - ma darebbe pure vantaggi economici.
Certo, poi è difficile rivestire di eticità operazioni come la «delocalizzazione» o la «ristrutturazione» (fuori dal neutro linguaggio manageriale: i licenziamenti). Piuttosto il pubblico può fare da traino, se, come ha ricordato il ministro francese, ben il 16% del Pil europeo è rappresentato dalle commesse e dagli appalti pubblici, dunque è da lì che deve partire l'esempio (e infatti in questi giorni la Francia ha varato una Carta degli enti pubblici, che lega il progresso economico a quello ambientale e sociale).
Per Ferrero infatti il nodo della questione non sta nell'augurarsi che le imprese, da sole e in qualsiasi contesto, siano «volenterose». «Parlando delle liberalizzazioni e criticando la vendita della Rete gas in consiglio dei ministri - ha spiegato - ho detto che quasi invidio il governo francese. Pur essendo di centrodestra, infatti, almeno dà importanza alla politica industriale e sostiene l'apparato produttivo. In Italia le imprese potranno operare con qualità se il contesto sarà di qualità, se le leggi e gli accordi sindacali creano un ambiente dove la responsabilità si può sviluppare. Senza questo humus non ci si può aspettare altro che carità».
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