Giappone, atipici e stagisti asiatici ridotti in schiavitù dalle major che così 'competono' tra loro
Tre anni fa Le Thi Kim Lien aveva 19 anni e un sogno: diventare un'operaia specializzata per non essere piu' obbligata a lavorare a cottimo, per pochi centesimi di dollaro l'ora, come le era sempre capitato nel suo Paese, il Vietnam. Lo hanno detto di recente anche le Nazioni Unite, anzi l'Unctad, l'agenzia specializzata in commercio e sviluppo: i Paesi piu' poveri non potranno mai liberarsi dalla trappola della miseria se rimarranno sempre gli ultimi anelli di una catena di produzione che tiene le fasi di maggior specializzazione saldamente ancorate nelle mani dei Paesi piu' ricchi, per i quali quelli meno sviluppati si limitano a fare manovalanza, a pochi spiccioli e con poche pretese. Lei lo aveva capito tutta da sola, e un bel giorno di tre anni fa è inciampata nella sua grande occasione: lasciare Ho Chi Min City e trasferirsi in Giappone dove, partecipando ad un programma internazionale di formazione professionale, poteva diventare piu' capace guadagnando bene, continuando cosi' ad aiutare genitori e fratelli, 11 persone in tutto, senza rinunciare al suo sogno.
Il Giappone, proprio come l'Italia, sta invecchiando, ma non vuole in alcun modo perdere pezzi del suo sistema produttivo. È per questo che, prevedendo una riduzione del 4% della forza lavoro entro il 2020 e stante la resistenza dei giapponesi alla presenza immigrata che rimane appena l'1,6% della popolazione, è stato ideato il programma di stages per lavoratori stranieri, sponsorizzato dal Governo e supervisionato dalla Japan International Training Cooperation Organization. "Il programma aiuta i Paesi piu' poveri, garantendo un avanzamento tecnologico a costo zero della loro popolazione attiva, mentre il Giappone ci guadagna operai", ha sottolineato in prosa Hiroshi Inoue, direttore della Confindustria del Sol levante, la Japan Business Federation. I lavoratori stranieri dovrebbero ricevere, infatti, formazione avanzata in ambito tessile, agricolo e di trasformazione alimentare, e, nel secondo e terzo anno, essere avviati al lavoro con la garanzia piena del diritto giapponese. Lo scorso anno circa 93mila persone sono arrivate in Giappone per partecipare all'iniziativa, mentre al momento dovrebbero esservi inseriti in circa 150mila.
Anche la realta' che si nasconde, pero', dietro i depliants patinati degli intermediari, Le l'ha dovuta capire tutta da sola. La ragazza, infatti, al modico prezzo di 8.800 dollari di ‘mediazione' saldati in contanti, si è ritrovata ad assemblare pezzi di automobili Nissan e Toyota in una fabbrica ‘low cost' giapponese. TMC è un subfornitore della Tokai Craft, che fa componentistica per la Toyota Motor Corp. e la Nissan Motor Co. e stando alle carte del processo che sta per essere celebrato dalla Corte distrettuale di Nagoya, Le e altri 5 suoi colleghi cucivano poggiatesta e braccioli per auto alla TMC Ltd., lavorando talvolta dalle 8 e mezzo del mattino fino ad oltre la mezzanotte, per uno stipendio di 58mila400 yen al mese, l'equivalente di 470 dollari, meta' dei quali venivano depositati in un conto corrente bancario cui Le non aveva accesso e probabilmente riconducibile agli stessi intermediari. Le non poteva nemmeno piu' utilizzare a piacimento il passaporto, che le era stato ritirato, mentre tutte le volte che usava il bagno, per una doccia o per la pipi', le venivano trattenuti 15 yen al minuto.
Questi stagisti atipici - che arrivano per lo piu' dalla Cina, dall'Indonesia, dalle Filippine e dal Vietnam - vengono reclutati da compagnie che cercano cosi' di competere con i loro stessi Paesi di provenienza assicurandosi braccia a basso costo. "Ma questa è tratta di esseri umani e riduzione in schiavitu'", ha denunciato alla stampa giapponese Ippei Torii, segretario generale della Zentoitsu Workers Union di Tokyo, che ha aiutato Le a raccontare la sua storia e a chiedere giustizia. Il direttore generale della TMC, Masaru Morihira, che si è chiuso nel piu' stretto riserbo, ha obiettato pero' che lui pagava per ciascun operaio ben 800 yen l'ora e che le condizioni di lavoro erano stabilite dalla Toyota Technology Exchange Cooperative, un gruppo che colloca gli stagisti, procura materiali e avvia i lavoratori vietnamiti nelle fabbriche della TMC. "Sto lottando per portare la mia azienda fuori dalla crisi", ha lamentato ancora Morihira. "Ero orgogliosa di produrre pezzi della Toyota, ma sono arrabbiata per essere stata usata come una cosa da nulla", gli ha risposto a distanza Le. Non poteva immaginare, infatti, prima dell'intervento dei sindacati, che pur mettendoci tutto il suo impegno per imparare e migliorarsi, non stava guadagnando nemmeno la meta' del salario minimo legale garantito agli altri suoi colleghi giapponesi, che è di 688 yen l'ora. E che oltre al bilancio della sua famiglia, stava contribuendo a parare i colpi della competizione globale alla stessa industria giapponese.
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