L'«oro bianco» perde di valore e diventa sempre più un sottoprodotto

Alimentazione Slow Food e l'industria del latte su allevamento e produzione. È polemica
12 agosto 2007
Andrea Rocco
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Non sarà come quella sull'oro della Banca d'Italia, ma la polemica sull' «oro bianco», il latte e la sua qualità, sta salendo di tono. Ad aprirla è stato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, che in un articolo su La Repubblica del 6 agosto, dal titolo «Perché non sa di nulla il latte che beviamo», accusava l'industria del latte di aver costruito un meccanismo perfetto e perverso attraverso il quale sono stati stravolti il modo di allevare le mucche, di lavorare il latte e della bianca bevanda è stato cancellato il sapore.
Nello specifico Petrini sostiene che: le mucche sono gonfiate, fanno una vita grama (vivono meno e soffrono di più) per poter produrre quantità «innaturali» di latte, con un altrettanto innaturale (nel senso di altissimo) contenuto di grassi; questo latte ha perso le caratteristiche organolettiche di un tempo, è di fatto un sotto-prodotto che serve a creare materie grasse utilizzate in altre produzioni a più alto valore aggiunto; che gli allevatori non ci guadagnano affatto, perché la loro fetta nella catena del valore del latte è piccola ed in diminuzione e i consumatori ci perdono in termini di qualità, di gusto e di nutrimento. Petrini indica una via alternativa: «le evidenze scientifiche che dimostrano che un´alimentazione naturale, a base di erbe o di fieno polifita (ricavato da prati su cui sono presenti molte erbe diverse) è un´alimentazione più ricca, completa e salutare per gli animali, ebbene, quelle esistono. E se fosse questa la strada? Il nesso tra la produzione massiva e la bassa qualità sta nel fatto che la produzione massiva chiede uniformità, mentre la qualità si fa con la diversità».
La associazione dei produttori di latte Assolatte, assai piccata, a Petrini risponde in sostanza che «la qualità attuale del latte in commercio in Italia è infinitamente migliore di quello che si vendeva nelle latterie», sia in termini di igiene che di sapore, sia per il latte fresco che per quello di lunga conservazione. E accusa Petrini di dimenticarsi che «i prodotti in commercio in Italia hanno una qualità che non ha pari nel mondo e che quell'industria dà lavoro a migliaia di famiglie».
A difendere allevatori e produttori industriali di latte sono scesi in campo (sempre su La Repubblica, 9 agosto) Nino Andena, presidente degli allevatori e i due big del latte industriale, Parmalat e Granarolo. Ma con accenti evidentemente diversi. Per Andena gli allevatori producono buon latte tutto l'anno (non come quello di cui si ricorda Petrini, buono solo in alcune stagioni) e in abbondanza, ma senza forzare gli animali. Ma fa sue le accuse di Petrini sull'avidità dell'industria, che paga solo 32-33 centesimi al litro agli allevatori, intascandone 50 e, significativamente, ricorda che «se alla fine il mio latte non piace al consumatore vuol dire che qualcosa (le industrie) gli hanno combinato». Parmalat si aggrappa all'ambiguo concetto che «a guidare la ricerca sono i bisogni dei consumatori: ci chiedono latte che prevenga obesità e malattie cardiache, che rafforzi le ossa e aiuti la regolazione intestinale». Viva il latte-farmaco, quindi, come già osservava Petrini.
Ma il sotto-testo della guerra sul latte è l'accusa (non nuova) a Carlo Petrini di essere un arcaico legato ad un mondo che non c'è più e forse non c'è mai stato, un aristocratico che nega alle masse il piacere del consumo, un negatore della modernità e del progresso. In realtà Petrini ha messo ancora il dito sulla piaga e in più di un senso.
Come spiega l'articolo di Roberto Rubino in questa pagina, non c'è un'evoluzione naturale e voluta dal consumatore verso una produzione industriale e forzata (e di bassa qualità). Ma ci sono norme precise, dettate da altrettanto precisi interessi che alimentano, attraverso parametri apparentemente scientifici e neutrali, i meccanismi favorevoli ai grandi attori industriali, nel latte come negli altri settori. E che le cose non accadano per caso, e che Petrini abbia ragione, è dimostrato da una notizia riportata da Le Monde: sono sempre meno gli allevatori che producono latte, ogni anno solo in Francia sono 5000 gli allevatori che smettono, mentre cresce il consumo di prodotti più remunerativi, come formaggi, yogurt e semi-lavorati per dessert.
Il latte sta diventando davvero un sotto-prodotto. E non sarà che a forza di far bere latte cattivo (o insulso) si finisce con il disgustare quel «sacro consumatore» che si pensava di soddisfare?

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