Dibattito a Pescara tra botteghe del mondo e grande distribuzione.

Botteghe del mondo o grande distribuzione? Un falso problema

E' solo una questione di terminologia, o dietro le apparenze non sono poi molte le differenze tra le Botteghe del Mondo e la grande distribuzione? Riflessioni sugli argomenti trattati e le tesi sostenute dalle due parti in causa.
12 settembre 2007

mani in catene Serata conclusiva della manifestazione "Altracitta 2007", Fiera della sostenibilità eco-bio-equo, in piazza 1 maggio a Pescara [1]: diversi gli stand (da arci turismo solidale all'emporio Primo Vere, da GreenPeace alla Banca Etica, e tanti altri), numerosi i cittadini ed i villeggianti che, complice la bella serata e l'adiacente manifestazione degli artisti di strada, approfittando di una passeggiata magari per gustarsi un buon gelato, hanno approfittato per visitare le esposizioni e chiedere magari qualche consiglio alle associazioni presenti.

A parte lo spazio alquanto angusto (con tutto il parco alle spalle non si capisce perchè sia stato concesso solo un marciapiede) e qualche problema di elettricità (con la valvola di sicurezza del quadro elttrico che saltava ogni due per tre togliendo luce agli stand e microfoni alle sessioni di presentazione-discussione), almeno il pomeriggio-sera di domenica dovrebbe aver riscosso un discreto successo di pubblico.

Sicuramente i "pezzi forti" della serata erano la presentazione della linea ecologica del Commercio equo e solidale LYMPHA (http://www.lympha.eu/) a cura di Giovanni Spinozzi, direttore tecnico del progetto, e la sessione di dicussione "COMMERCIO EQUO E SOLIDALE: Grande Distribuzione e/o Botteghe del Mondo"? con gli interventi di Renzo Savini, responsabile della solidarietà internazionale della COOP Adriatica, Paolo Chiavaroli, presidente Mondo Solidale, e Enzo Agresti, Presidente Semi della Terra coordinata da Gigia Cellini, Comes Abruzzo e Molise.

IL GIOCO DELLE PARTI
Diciamolo da subito: all'interno di una manifestazione del commercio equosolidale, con un pubblico presente (almeno, quelli che si sono seduti durante la sessione) per la maggior parte composto da volontari e sostenitori delle botteghe del mondo, con tre partecipanti su quattro (quindi, inclusa la coordinatrice del dibattito) appartenenti alle coop del mercato equosolidale, il rappresentante della grande distribuzione (cheppoi, giusto la Coop? c'è di peggio in giro) ha di fatto avuto il ruolo dell'agnello sacrificale. Ha avuto il suo bel da fare il rappresentante di CoopAdriatica nel cercare di spiegare che le scelte della sua azienda non erano una operazione di facciata, di buonismo, di marketing o quant'altro, ma che di scelta strategica dell'azienda si tratta, che la "mission" aziendale è quella del mutuoaiuto (essendo una cooperativa, l'attenzione è rivolta in particolare al socio), che la Coop investe in progretti internazionali nel sud del mondo così come nel commercio eco-bio italiano per favorire i piccoli-medio produttori locali; c'era poco da fare tra una sfilza di domande ficcanti di Enzo Agresti ("quanto pagate il produttore indiano della camicia che vendete col marchio solidarcoop, visto il prezzo che fate al cliente finale qui in Italia? perchè vendete prodotti di taluni marchi che sono sotto boicottaggio internazionale per lo sfruttamento dei minori, o per comportamento antisindacale, o per politiche antiecologiche, accanto ai prodotti del commercio equosolidale?" e via dicendo), le digressioni socioeconomiche di Paolo Chiavaroli ("E' il sistema della grande distribuzione che non funziona: non solo acquistano dai produttori a prezzi irrisori, ma pagano a 30-60-90-120 giorni strozzando così i piccoli produttori, e queste immense masse di denaro cache vengono poi investite in speculazioni finanziarie"), le "moderazioni" della coordinatrice ("qual è il tasso di crescita dei prodotti con il marchio solidarcoop? quant'è in percentuale il fatturato dei prodotti solidarcoop all'interno del fatturato totale di coop?"), e Renzo Savini quello ha fatto. Ha giocato unicamente in difesa. Ha ricordato il numero di soci di Coop, ha ricordato il numero di punti vendita di Coop, ha ribadito le campagne annuali di Coop, ha elencato i progetti internazionali di Coop, ha raccontato dei suoi sette-otto-nove viaggi in Africa, come sindaco del suo paese romagnolo prima e come responsabile coop dopo, ha sostenuto i progetti di educazione al consumo che la Coop fa con i bambini delle scuole (piccoli consumatori crescono, insomma, meglio "coltivarli" sin dalle elementari).

IL PARADOSSO
Premetto che personalmente sono e sarò sempre a favore del "bazar" e contrario alla "cattedrale" [2], e quindi giocoforza mi schiererei anche io dalla parte delle botteghe del mondo; ma unirsi a questo gioco al massacro sarebbe fin troppo facile, e non farebbe altro che alimentare questo (falso) mito che la "piccola bottega del commercio eco-equo-solidale è bella", mentre il "grande ipermercato è brutto, sporco e cattivo". Ma è davvero tutto così?

Ragioniamo per assurdo: uno dei temi ricorrenti nella discussione è stato questo concetto di "valore aggiunto". Gli esponenti delle botteghe sostengono che i loro circuiti hanno un "valore aggiunto" che è dato da un insieme di valori etici, morali, sociali, finanche economici: pagare il "giusto prezzo" alla fonte, sostenere l'agricoltura biologica, rispettare i diritti umani, promuovere le culture locali, limitare gli impatti ambientali, e via dicendo.

Tutto giusto, ma da una organizzazione che ha nel suo statuto, nella sua mission, nel suo codice genetico quanto fin qui detto, non c'è da aspettarsi nulla di meno. Anzi, se manca qualcosa è un "valore tolto":
a) come già dicevo in miei precedenti articoli [3], entrare in una bottega del commercio equosolidale e trovare personal computer con installati software proprietari (tipicamente, microsoft), è un "valore tolto".
b) tipicamente le botteghe sono associazioni e lavorano quasi esclusivamente grazie al contributo, fondamentale!, dei volontari. Bello, ma perchè non creare delle cooperative in cui i soci-dipendenti possono avere una qualche forma contrattuale, e quindi di contributo economico? con le associazioni non si creano posti di lavoro, e questo è un "valore tolto".
c) le botteghe importano prodotti dal sud del mondo, e li rivendono - secondo certi criteri "etici" - nel nord del mondo, ma perchè? perchè non favorire le produzioni locali per il commercio locale (sia nel sud che nel nord del mondo) attraverso, ad esempio, questa bellissima invenzione dei GAS, Gruppi di Acquisto Solidale[4]? perchè continuare ad alimentare l'inquinamento mondiale spostando merci da una parte all'altra del globo? anche questo è un "valore tolto",
scrive p. Alex Zanotelli in un suo preziosissimo articolo [5] (di critica alle Botteghe del Mondo, tanto per ribadire alla coordinatrice del dibattito che se si leggono frasi estrapolate da un contesto, si distorce il pensiero dell'autore):
Il CES [commercio equo solidale ndr]non è fine a se stesso, ma deve aiutare tutte le forze critiche presenti sul territorio per far nascere quelle esperienze locali alternative che permettano poi l'emergere di soluzioni economiche di più vasto raggio. "L'elemento chiave di questa prospettiva - afferma il teologo tedesco U. Duchrow nel suo libro Alternative al capitalismo globale - è di rendere le comunità locali il più possibile autosufficienti e proteggerle dagli effetti dannosi del mercato mondiale". Oggi non è più sufficiente fare resistenza, ma sarà sempre più compito del CES creare spazi economici locali autosufficienti. E' fondamentale - afferma sempre Duchrow - "la creazione di spazi economici locali con mercati locali che siano orientati al bisogno, sostenibili dal versante ecologico e promuovano il lavoro". Il noto teologo tedesco Duchrow conclude: "Per questa evoluzione è molto importante il decentramento dell'approvvigionamento energetico con energie rinnovabili (sole, vento, acqua, .) e lo sviluppo dell'agricoltura biologica preferibilmente nella forma della cooperativa dal produttore al consumatore.
d) continua nello stesso articolo zanotelli:
Uno stimolo a consumare di più?
Se l'enfasi del CES va al primato del commercio, al vendere di più, è chiaro che l'invito ad uno stile di vita più sobrio, a consumare di meno, andrà decrescendo. Eppure è il cuore del CES che dovrebbe invitare tutti a consumare di meno, ad avere uno stile di vita più semplice. Un esempio di questa tendenza è l'apertura di tante botteghe durante le "domeniche d'oro" (precedenti la festa di Natale, la festa per eccellenza del consumismo mondiale). È ovvio che in quelle domeniche si vende di più. Ma è giusto? Non rischiamo di entrare nel grande giro del consumare, consumare, consumare.
Le botteghe dovrebbero essere dei luoghi dove la gente impara ad essere più sobria, più essenziale.

anche questo è un "valore tolto".
e) i circuiti del commercio equosolidale acquistano produzioni locali, le importano nei paesi d'origine, le distribuiscono e le vendono con il proprio marchio (sia esso Fairtrade, CTM- Altromercato o altri); non viene promosso un "marchio d'orgine", ma si ripropongono paroparo le logiche di tutela del trademark [6] tanto care al World Trade organization (WTO) [7], e questo è un "valore tolto".

Al contrario, la mission della grande distribuzione qual è? il commercio. Vendere. Far girare beni, e soldi. In nome di questo "dio mercato" le grandi corporations (di produzione, ma anche di trasporti, di commercio e via dicendo) sono disposte in genere a passare anche sui cadaveri dei propri cari. Business is business, come dice la regola d'oro.
Se dunque una grande catena di distribuzione inizia a proporre ai suoi soci-clienti prodotti che rispettano le regole del commercio equosolidale, se si attiva facendo informazione, se investe in progetti locali ed internazionali, se crea gruppi di soci-volontari che collaborano al successo di queste iniziative, allora direi che questo è un "valore aggiunto".

Con questo non intendo assolutamente sostenere che la grande distribuzione sia meglio delle botteghe, ma per lo meno non copriamoci dietro la foglia di fico, come sosteneva nel dibattito Paolo Chiavaroli, di "cambiare le parole, i termini, per distinguerci l'uno dall'altro".

LE REGOLE DEL COMMERCIO: BREVETTI E TRADEMARK
A me personalmente ha molto colpito, per non dire proprio infastidito, girovagare tra gli scaffali di una bottega del commercio equosolidale e trovare un prodotto (se non ricordo male, una zuppa di legumi) di una cooperativa locale con su scritto "questo è un marchio registrato. tutti i diritti sono riservati". Per me, significa una cosa sola: ripetere pedissequamente i canoni mercantili del commercio internazionale regolati dagli accordi multilaterali del World Trade Organization, quella stessa organizzazione contro cui tutti gli attivisti del mondo (quelli che vengono massificati in un termine giornalistico senza significato quale "noglobal") combattono ormai da anni perchè espressione delle speculazioni del nord del mondo a scapito del sud (ma qualcuno di questi signori si è mai preso la briga di leggere, ad es, "Lettera ad un consumatore del Nord?" [8])

Torno ad usare le parole di Alex Zanotelli:
Il CES è nato non per mandare qualche soldo in più al sud del mondo, ma per far capire ai consumatori del nord che c'è qualcosa di radicalmente sbagliato nella filiera commerciale. Scopo del CES infatti è cambiare le regole del gioco perché c'è qualcosa di radicalmente ingiusto nel sistema economico internazionale.
È vero che i contadini impoveriti del sud ci chiedono di vendere sempre più i loro prodotti, ma non è così che risolveremo i loro problemi.
Se ci dimentichiamo che il CES è uno strumento politico per coscientizzare i consumatori del nord a cambiare le regole del commercio internazionale, non otterremo nulla. Avremo fatto solo carità.
Avevo ritirato il mio nome da Transfair proprio perché, a mio avviso, non faceva uno sforzo sufficiente per informare coloro che comperavano quei prodotti. Ed in questo avevo allora l'appoggio del CES. Ora è lo stesso CES che rischia di trovarsi nella stessa situazione.

Di tutto questo, nella discussione dell'altra sera, non c'è stata assolutamente traccia, ed entrambi i "contendenti", le botteghe e la grande distribuzione, si sono ben guardate dal ragionare sulla vera essenza del problema: cambiare le regole del gioco. Di certo non è compito della grande distribuzione, che ha come mission quella di vendere, creare utili (per quanto una coop non li suddivide tra gli azionisti ma li reinveste nella cooperativa stessa). Potrà "abbellire" questo mero scopo commerciale con un paio di pennellate di equità e solidarietà, potrà creare una filiera "sana e giusta", potrà tutelare i suoi soci-clienti garantendo la bontà del prodotto, ma oltre questo difficilmente andrà.
Al contrario, dovrebbe essere compito fondamentale, quando non proprio la ragione d'essere!, delle botteghe del mondo quello di uscire dalle logiche di mercato, rompere i dettami del commercio internazionale, cambiare radicalmente il sistema dei brevetti e del trademark imposto "unilateralmente" dal nord del mondo (e quando il Sud cerca di ribellarsi le corporation fanno il diavolo a quattro, vedi ad esempio la questione SudAfrica vs BigPharm per i farmaci anti-hiv, o vedi le campagne di Medici senza frontiere sulla ricerca farmacologica mondiale [9]) a scapito del Sud.

Ed in tutto questo, le botteghe dove sono? semplicemente a lamentarsi del male che fa la grande distribuzione, ignorando, o facendo finta di ignorare, che loro stessi non fanno altro che ripetere, in piccolo, le stesse cose.

Note: 1] http://retenonviolenta.altervista.org/altracitta2007.html
[2] http://www.apogeonline.com/openpress/cathedral
[3] Quale mercato altro? http://www.ldenews.info/?p=64
Software Libero in Molise http://www.ldenews.info/?p=61
[4] http://www.retegas.org/
[5] http://www.unsolomondo.net/articoli/riflessioni-commercio-equo-alex-zanotelli.htm
[6] http://it.wikipedia.org/wiki/Trademark
[7] http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Mondiale_del_Commercio
[8] http://www.ecn.org/asicuba/libri/nord.htm http://www.cnms.it:8080/cnms/pubblicazioni/letteraconsumatorenord
[9] http://www.msf.org/petition_india/italy.html

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