Blackout. Crisi del sistema energetico, dell'ambiente, della politica.
nucleare, l' abbandono dell'accordo di Kyoto dimostrano la necessità di una
rivoluzione del modo di produzione e di organizzazione della società
I pesci, i bambini e le nuove centrali. - Il black out elettrico, che ha
colpito il nostro Paese il 26 giugno scorso, poteva sembrare, ed in effetti
lo era anche, l'ennesima dimostrazione di quanto possa essere grave
l'inesistenza di una politica energetica degna di questo nome, ovvero di
quanto insipiente e inadeguato fosse il governo italiano. I successivi,
simili episodi di Londra e New York hanno però messo in luce una situazione
ben più inquietante, ovvero l'arretratezza dell'organizzazione dei sistemi
elettrici nei principali Paesi capitalistici. Naturalmente, differenti sono
state le cause specifiche e la situazione italiana si segnala comunque per
l'improvvisazione in cui è stata ed è lasciata la politica energetica. Che
cosa dire, infatti, del gran suggerimento dell'ex ministro dell'Ulivo per
evitare il black out, ossia di fare il giorno prima quello che è stato fatto
il giorno dopo: "scaricare l'acqua un po' più calda del dovuto per 15
giorni: i pesci si sarebbero riscaldati ma i bambini non sarebbero rimasti
appesi alle giostre" (testuale: "la Repubblica", 30 giugno 2003).
L'affermazione incredibile è, al solito, temperata dall'elenco dei buoni
propositi profusi dall'ex governo di centro-sinistra per lo sviluppo delle
fonti rinnovabili, il risparmio energetico, ecc. ecc.; oggi naturalmente
devitalizzati dal governo di centro destra. Resta il fatto che la scelta del
centro-sinistra fu anch'essa quella di cercare di risolvere il deficit
elettrico avviando la costruzione di nuove centrali e liberalizzando
ulteriormente il settore, ritenuto troppo dominato dal monopolista pubblico.
Con frutti che non corrispondono alle aspettative, rileva oggi l'ex
ministro.
Che cosa ci si aspettasse, in verità, dalla consegna in mano ai privati
delle decisioni strategiche riguardanti il futuro dell'energia nel nostro
Paese, o anche soltanto quelle relative agli investimenti, non è ben chiaro.
Forse, la sinistra tutta potrebbe rileggersi qualcosa di Ernesto Rossi, per
capire le ragioni economiche, sociali e strategiche che richiesero
prepotentemente la sottrazione ai privati del settore energetico, giunto,
allora, a un punto di inefficienza assai pesante. Né vale oggi dire che
anche il monopolista pubblico alla fine si è trasformato in un ostacolo,
favorito nella sua immobilità tecnologica, produttiva e finanziaria
dall'assenza di una concorrenza degna di questo nome.
La riscoperta del valore del mercato e della concorrenza è possibile se si
dimenticano, volutamente, le scelte compiute: la costruzione di un monopolio
su cui costante è stata la pressione politica, fino alla sua trasformazione
in un ingombrante carrozzone burocratico (con qualche pregio e moltissimi
difetti); l'abbandono della strada che era pur stata indicata dalla
Costituzione repubblicana, ovvero l'affidamento a comunità di utenti; la
posizione di seconda fila assegnata alla ricerca scientifica e tecnologica;
i mancati investimenti nei settori delle energie rinnovabili e per la
promozione e l'utilizzo di tecnologie pulite; la totale assenza di politiche
fiscali e tariffarie che agevolino il risparmio di energia sia nella
produzione delle merci che nei consumi in senso lato. Quel poco, o molto a
seconda dei punti di vista, che è stato fatto per alcune merci, come ad
esempio l'automobile che in effetti consuma , e viene prodotta con, meno
energia della sua sorella di alcuni anni fa, è completamente vanificato
dall'iperbolico aumento del numero dei veicoli in circolazione. Ciò vale per
un insieme di altre merci, ma non per le lampadine: quelle ad efficienza
hanno avuto una stentata promozione perché, alla fine, avrebbero potuto
consumare meno energia elettrica, la cui vendita è il vero affare. A
dimostrazione che il core business è la vendita di energia non la sua
efficienza o il suo risparmio.
Ora i nodi sono venuti al pettine, anche in Paesi nei quali il settore
privato o la deregulation caratterizzano i sistemi energetici, perché
identica è stata la miopia di imprenditori e managers, solo attenti
all'immediato ritorno in termini di profitto e disinteressati ad ogni
visione almeno d'insieme, se non prospettica. L'obsolescenza e addirittura
la decrepitezza delle reti di trasporto, tra le cause dei black out, sono
simboliche di una condizione della produzione elettrica volta esclusivamente
al tornaconto più diretto. Il management delle imprese elettriche si è
rivelato veramente al di sotto di ogni previsione, curvo sui propri
interessi, a malapena camuffati come vantaggi degli azionisti, senza alcun
riguardo alle attese degli acquirenti o dei consumatori. In generale, il
livello intollerabile di arretratezza messo in luce vistosamente dai black
out elettrici indica che ha egregiamente funzionato, sia nel settore privato
che nelle public companies, quello che Luciano Gallino chiama il principio
di Peter, "in base al quale, com'è noto, ciascuno raggiunge prima o poi il
livello di incompetenza che gli è congeniale". Nell'industria e nella
politica.
Invece di cercare di capire perché non si sono realizzati i tanto sperati
investimenti nella produzione, e soprattutto nelle reti di trasporto di
energia elettrica divenute estremamente fragili, nonostante le pur notevoli
disponibilità finanziarie, le lobbies al potere lamentano le difficoltà che
incontrano nella realizzazione di nuove centrali. E' il passo propedeutico
essenziale per potersela prendere con la "gente" che vuole sempre più
energia a disposizione ma non tollera la vista di un traliccio o di
un'antenna, figurarsi di una vera grande centrale di produzione, o con gli
ambientalisti sempre pronti a dettare regole per proteggere qualche
ecosistema a scapito dei miglioramenti del tenore di vita che l'utilizzo
sempre maggiore di energia produrrebbe. E, dunque, per chiedere che le
regole che già ci sono si allentino, almeno temporaneamente poi si vedrà, e
soprattutto per lamentare l'insufficiente uso dell'energia nucleare, ma
anche del carbone e del petrolio o del gas. Ogni riserva dovrebbe essere
ormai abbandonata, i passi compiuti dalla scienza dimostrerebbero che non vi
è alcun pericolo nel mettere a profitto l'uranio e d'un sol colpo si
raggiungerebbe anche l'obiettivo che sta a cuore a certuni - quelli che non
esitano a mettere in discussione un modo di produzione e di consumo che non
deve assolutamente esserlo - di ridurre drasticamente l'emissione di gas
alteranti il clima. E anche le fonti fossili possono essere usate con le
tecnologie attuali, che evitano il rilascio in atmosfera di anidride
carbonica ed altre sostanze. Così ragiona, o sragiona, l'Amministrazione
statunitense, i cui componenti hanno fatto e fanno affari o provengono
addirittura dalle grandi corporations petrolifere: incentivi per il nucleare
e il carbone, abbandono definitivo dell'Accordo di Kyoto, revisione delle
regole di protezione ambientale, compresa quella che vietava l'estrazione di
petrolio nelle riserve naturali.
Fiato alle trombe del nucleare e dell'idrogeno. - Qui da noi, il nostro
assai poco invidiabile governo presenta le stesse idee in una insopportabile
confezione in cui la superficialità contende la palma al pressapochismo.
Credono davvero che lo sfruttamento dell'atomo non comporti rischi, tant'è
che suggeriscono un sito di deposito delle scorie nucleari in ciascuna delle
20 Regioni. "Visto che nessuno vuole ospitare il sito unico, abbiamo pensato
di farne venti" confessa candidamente ad Erice il ministro Giovannardi,
senza rendersi conto dei costi enormi che tale decisione produrrebbe, sempre
a patto di trovare tali siti in località che abbiano le caratteristiche
fisiche necessarie e dopo aver moltiplicato per venti l'opposizione ad essi.
Né è da meno il centro-sinistra, con il presidente di Legambiente che,
commentando le insensate parole del ministro, propone, con inaspettato
piglio colonialista, la ricerca di un sito all'estero per stoccarvi le
scorie ad alta intensità radioattiva ("la Repubblica", 22 agosto 2003).
Non si arriva ancora, da parte del governo, a decidere il ripristino della
messa a profitto dell'atomo, forse consapevole che la scelta è stata
compiuta dopo un dibattito ampio e con una convinzione profonda sulla
pericolosità della fonte. Si comincia però a sgretolarne la portata,
consentendo alle imprese italiane di produrre energia nucleare all'estero.
Sulla base di un ragionamento che ha la parvenza del buon senso e del
realismo, ma che, al contrario, è una vera e propria mistificazione. Si
sostiene infatti che il referendum del 1987 avrebbe inibito la produzione
nazionale di energia dalla fonte nucleare, ma non il consumo di tale energia
se fosse stata acquistata all'estero. Fu un referendum ipocrita, e in fondo
stupido: l'Italia è circondata da Paesi con centrali nucleari attive e
perciò non è affatto al riparo dai rischi e dalle conseguenze di eventuali
incidenti. Tanto vale, allora, riaccoppiare allo svantaggio di essere ai
piedi delle centrali il vantaggio di usarne i prodotti. Ossia, bisogna
finalmente dire le cose come stanno, senza le ipocrisie della sinistra, e
cioè che la prerogativa di questo governo, consiste nello straparlare
credendo che straparlino tutti gli italiani.
Le cose però stanno ben diversamente. L'uscita dell'Italia dalla produzione
dalla fonte nucleare segnò un momento importante del dibattito sull'energia,
peraltro per un certo tempo guidato dal quell'eminente personalità che fu
Paolo Baffi, in quanto fu apertamente e severamente messo in discussione il
modello energetico fino ad allora seguito, fondato sulla produzione
concentrata in mega impianti, la cui maggiore complessità è essa stessa
fonte di insicurezza, su reti di trasporto a grandi distanza scontando le
conseguenti notevoli perdite, sul mancato utilizzo delle fonti rinnovabili,
sull'opportunità di non legare le generazioni future a scelte irreversibili
che ne avrebbero potuto impegnare seriamente l'esistenza. Se, poi, i governi
che si sono da allora alternati alla guida del Paese si sono limitati ad
acquistare in Francia l'energia supplementare di cui c'era bisogno (tanta,
il 16% del fabbisogno), evitando con cura non solo di dar seguito alle
indicazioni emerse nel dibattito referendario ma anche di elaborare uno
straccio qualsiasi di programmazione dell'energia, allora l'ipocrisia è la
loro.
Del resto, i black out inoppugnabilmente testimoniano il fallimento delle
politiche fin qui seguite. Ed è necessario forse ricordare che tutti i
principali Paesi occidentali, compresi gli Usa, hanno abbandonato la strada,
che sembrava maestra, della costruzione di ulteriori reattori
autofertilizzanti e hanno da tempo scoperto la vulnerabilità del sistema. La
fiducia del pubblico, secondo il gergo del marketing, è ai minimi. E pour
cause. Può essere che la sordina messa finora al nucleare derivi, per le
imprese, dal basso prezzo del petrolio più che dalla convinzione dei rischi
cui espongono le popolazioni e che, in prospettiva, tale prezzo diventi meno
conveniente e ridia fiato al nucleare. Ciò spiegherebbe il riaccendersi
della voglia di nucleare cui abbiamo assistito in queste settimane, ma non
lo giustificherebbe.
Produrre energia senza scorie e in quantità illimitata è un mito che in
profondità permea la nostra società tecnologica e che sospinge la scienza
lungo sempre nuove strade, è il caso dei reattori di nuova generazione, il
cui problema di fondo resta pur sempre la destinazione delle scorie
radioattive, di durata inimmaginabile, anche oltre i 20mila anni; sono i
casi, per ora allo stato teorico, del progetto EA, amplificatore di energia
e dei vari processi di fusione allo studio in Europa, tra i quali il
reattore Tokamak, del progetto Iter (International thermonuclear
experimental reactor). Il sogno, ovviamente, deve potersi alimentare nelle
scelte che originano dalle società umane; la sua trasformazione in processi
produttivi dovrebbe però soggiacere a dibattiti nei quali entrano anche
altre determinanti, la finitezza delle risorse, la giustizia, l'equità e nel
caso del nucleare, la libertà. Ossia i principi della precauzione e della
responsabilità.
Più di recente si è affacciata l'ipotesi che la società del futuro possa
essere la società dell'idrogeno, ma vi è l'inconveniente che il petrolio o
il carbone verrebbero impiegati nella sua produzione con il conseguente
rilascio di CO2. In questo caso i vantaggi deriverebbero dalla
concentrazione, per così dire, dell'inquinamento nel solo momento della
produzione, con la possibilità di poter confinare i gas di emissione ,
irrealizzabile nel caso di gas provenienti da milioni di punti di consumo
(tipicamente le automobili). Perplessità ulteriori nascono dalla circostanza
che allo studio dell'Unione europea dedicato alle prospettive dell'impiego
dell'idrogeno, guarda caso intitolato "il nostro futuro", abbiano
contribuito le grandi case automobilistiche e petrolifere.
E', comunque, ben curioso constatare che da un lato la debolezza della
politica europea e nazionale dell'energia deriva dalla pressione, finora
vincente, di aziende petrolifere e automobilistiche e dall'altro che proprio
queste stesse imprese sono chiamate a progettare il nostro nuovo futuro.
All'insegna dell'idrogeno si profila la rinascita del carbone e il
ringiovanimento del petrolio, hanno denunciato Greenpeace e Wwf; come sempre
le vecchie scelte vengono riverniciate con qualche pennellata simil
ambientale
Ad uno stadio ancor più teorico vi è il progetto di ottenere l'idrogeno
dall'acqua utilizzando l'energia solare per separarlo dall'ossigeno, cui in
particolare lavora l'Enea. Lo stato dell'arte non consente di valutarne la
portata, in termini di efficacia della risposta ai problemi energetici
attuali.
L'irrilevanza della strage termica. - Ma l'estate 2003 verrà ricordata anche
per la grande ondata di caldo umido e di siccità che ha colpito il nostro
Paese e mezza Europa. Anzi, proprio questa sembra essere stata la causa del
picco raggiunto nei consumi di energia elettrica, che ha contribuito a
provocare il black out e, purtroppo, molte migliaia di vittime nella parte
più debole della popolazione europea. E qui il discorso non è semplice
perché è difficile stabilire una connessione lineare, diretta, immediata tra
attività umana e modifica climatica di una singola stagione. E' difficile,
cioè, stabilire un sistema di equazioni che dia conto del fenomeno
misurandone l'influenza direttamente proveniente dalle attività umane. A
questo si appigliano quanti sostengono che non c'è una correlazione
dimostrabile matematicamente tra le attività umana e l'alternarsi delle
stagioni e le caratteristiche specifiche delle medesime, e pertanto non è
possibile dedurne un limite per quelle stesse attività. Certamente chi
inquina, chi sparge veleni nell'aria o nell'ambiente, deve essere colpito ma
non è responsabile della siccità o del caldo o delle alluvioni. Con una
certa contraddizione, questi sostenitori dell'irrilevanza della emissione di
sostanze inquinanti ai fini del cambiamento climatico sono anche, in genere,
fautori dell'utilizzo dell'uranio nella produzione di energia elettrica, in
quanto appunto energia pulita, anzi pulitissima !
In realtà, come da tempo dimostrano vari scienziati, l'attività umana non
solo influisce sul cambiamento climatico. ma ha addirittura modificato la
struttura delle alte atmosfere, rialzando di alcune centinaia di metri la
tropopausa che si estende tra i 9 e i 18 chilometri dalla superficie
terrestre e che rappresenta la fascia di separazione fra la troposfera e la
stratosfera. Occorreranno ulteriori dati, ma è tuttavia indubitabile da
questo breve cenno e da tanti altri che se ne potrebbero fare che l'attività
umana influisce sul cambiamento climatico con modalità assai chiare, quali
l'aumento dell'effetto serra e dunque del riscaldamento della Terra. E le
stesse compagnie assicurative non hanno molti dubbi, sopportando l'inatteso
aumento dei costi economici dovuti a disastri naturali.
Del resto, non vi è alcuna altra causa accertabile che spieghi l'aumento
appunto dell'effetto serra e il contestuale parallelo aumento dei processi
di desertificazione, di riduzione dei ghiacciai, di assottigliamento dello
strato di ozono, di innalzamento della tropopausa, ecc. ecc. Come questo
cambiamento si traduca in modifiche stagionali specifiche, o in eventi
estremi come oggi si definiscono la siccità e le alluvioni, va ancora
indagato e sarebbe atto di grande responsabilità dei più scettici membri
della comunità scientifica, in cui non speriamo, se si abbandonasse
l'ipotesi dell'irrilevanza e si accumulassero più conoscenze possibili su
fenomeni che avranno comunque una grandissima importanza nel nostro prossimo
futuro.
Ad aggravare la situazione, è di recente affiorata la convinzione che ci
possa essere assai minor tempo di quanto non si supponesse per diminuire
l'effetto serra attraverso la sostituzione dei combustibili fossili, che non
può non essere graduale e, per così dire, lenta. E' stata la stessa comunità
scientifica statunitense ad avanzare l'opinione che le crisi climatiche
possano essere repentine e a sorpresa, inaspettate e "veloci". Vedremo
l'anno prossimo se l'estate sarà uguale, o meglio, o peggio a quella di
quest'anno, ma intanto cerchiamo di prevenire i danni di un autunno nel
quale piogge torrenziali scivolino velocemente sul terreno reso compatto
dalla siccità o liscio dalla cementificazione.
Un altro modo di produzione è possibile. - La vera, drammatica situazione
che anche i black out hanno squadernato, la vera sfida di fronte alla quale
si trova l'umanità è rappresentata dall'enorme contraddizione esistente tra
i consumi orientati a una crescita illimitata e apparentemente
incomprimibile e la scarsità della disponibilità di energia, la finitezza
delle risorse fossili, la rischiosità delle tecnologie pesanti. Con
l'aggravante dell'ineguale accesso a quegli stessi beni che discrimina la
stragrande maggioranza della popolazione mondiale. In questo contesto, che
richiederebbe un salto di qualità nel dibattito culturale e politico, le
élites al potere rispondono nel modo in cui si è accennato, evitando in ogni
caso di costruire un costo di produzione dell'energia che prenda in
considerazione, oltre alle attività direttamente volte alla produzione del
bene, quelle azioni che la società deve compiere per attenuarne l'impatto,
almeno in termini di inquinamento e di diminuzione delle risorse non
rinnovabili. La carbon tax, o altre misure del genere sono viste come il
fumo negli occhi; molto meglio fare qualche guerra per cercare di
controllare tutto il petrolio disponibile. Dove ciascuno sarà da par suo,
chi schierando una poderosa forza militare, chi, come noi, con sotterfugi
per aggirare la Costituzione e qualche migliaio di soldati. Restano allora i
palliativi della costruzione purchessia di nuove centrali, in modo da
prendere tempo e allontanare il momento in cui si dovranno fare altre
scelte. Sperando magari che vada bene e se ne debbano occupare le future
generazioni.
Nel frattempo, si riscopre l'esistenza di tecnologie dolci o leggere che
possono ridurre i consumi a parità di servizi erogati, permettere l'utilizzo
del sole, del vento, dell'acqua, delle biomasse, addirittura consentire la
nascita di piccole centrali "fai da te" (per dirla all'ingrosso), ossia
favorire la cosiddetta generazione distribuita o microgenerazione. Con
effetti ambientali e di oculato uso delle fonti fossili e di avvio
dell'utilizzo delle fonti rinnovabili che non è qui il caso di elogiare
ancora una volta. Il fatto è che realizzare questi obiettivi non è facile
come elencarli, richiede tempo, soldi e un cambiamento culturale assai
consistenti. Il caso delle marmitte catalitiche, dei pannelli solari, delle
centraline termiche, della stessa raccolta differenziata, e via enumerando,
provano che queste iniziative, per avere successo, richiedono preparazione,
conoscenze diffuse, qualificazione degli installatori e manutentori,
controlli che mancano attualmente e che costano. Anzi, costeranno sempre di
più, quanto più sofisticate si facessero nel tempo le nuove forme
tecnologiche e organizzative. E' la strada da battere, beninteso, ma con
consapevolezza e senza la faciloneria con cui la propone il nostro governo
e, senza l'acritica superficialità con la quale l'Unione europea si affida
al mercato e alla risposta squisitamente tecnologica. Dimenticando le
persone viventi. E' chiaro che vi è del comico nell'invito dei governanti al
risparmio e alla riduzione dei consumi, come ha rilevato Carla Ravaioli ("il
manifesto", 3 luglio 2003), ancor più comico se si pensa che, sulla scia
degli Stati Uniti, anche qui da noi si voleva proporre, qualche mese fa, di
ipotecare le case di proprietà per disporre di somme da spendere: essendo
appunto il consumo e l'iperconsumo l'obiettivo che fa girare l'economia con
te, secondo l'espressione berlusconiana.
Ma è altrettanto chiaro che se vuole passare alla cose serie, occorre come è
stato pur ricordato in questi mesi, promuovere una vera e propria
"rivoluzione culturale", con la ripresa di temi, argomenti, progetti che
sono stati iniziati e poi abbandonati o che vivono in esperienze delle quali
il grande pubblico è tenuto all'oscuro. Né bisognerebbe esitare nel
collegare direttamente la crisi energetica e ambientale allo sviluppo cui è
giunto il capitalismo e alla necessità di ricercare un altro modo di
produzione e di organizzazione della società. Il punto - si dice - non è la
sostituzione di un modo di produzione con un altro che non si sa che cosa
sia. Non sarà certo una riedizione del "socialismo reale" Ma non può essere
nemmeno un riformismo altrettanto astratto e con l'aggravante di considerare
il capitalismo occidentale "l'unico ma anche - lo dico senza esitazione - il
più umano dei regimi oggi possibili" (Giorgio Ruffolo, "la Repubblica", 23
agosto 2003).
La grande speranza è semmai che si riapra un dibattito sull'insostenibilità
sociale e ambientale del modello energetico dominante e un incontro tra
forze e soggetti differenti del tipo di quello che ha messo in mora
l'acritica fiducia nelle virtù taumaturgiche dei processi di
globalizzazione.
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