IL "METALLO DEL DISONORE" UCCIDE ANCORA.
"Partito per Milano e sbarcato in Macedonia, loc. Scopje,
destinazione Pec, qui sono rimasto per circa un mese (...). Ricordo che in
quel tempo circolava già la voce secondo la quale bisognava indossare un
abbigliamento adeguato per operare in quelle zone, altrimenti si sarebbe
rischiato di ammalarsi. Quindi, chiesi subito ai miei superiori se tutto
ciò era vero: mi risposero che quello che si diceva era frutto della
fantasia umana e che non vi era alcun riscontro scientifico; e allora chiesi come mai gli altri eserciti indossavano tute speciali fino a coprire interamente il loro corpo. Mi risposero che erano esibizionisti e fanatici. Quindi,continuai la mia missione confortato dalle affermazioni tranquillizzanti dei miei superiori, operando in quasi tutto il Kosovo, svolgendo sempre lavori ad alto rischio per la mia salute" e "respirando fumo e polveri di ogni tipo". Tornato a Milano, "dopo qualche giorno ho chiesto visita medica perché ero febbricitante e con tosse stizzosa, e sulle prime gli ufficiali medici mi dissero che non ero affetto da nessuna patologia seria e che in pochi giorni sarei tornato in buona salute come prima, e invece da qual giorno non sono mai stato più bene come prima, (...) mi sono trovato un brutto tumore che ha cancellato forse per sempre il sorriso e la gioia di vivere dal mio volto e di tutti quelli che mi vogliono bene".
Questa memoria è di Luca Sepe, caporalmaggiore dell'esercito, deceduto il
13 luglio 2004 all'ospedale Cardarelli di Napoli per un linfoma di Hodgkin.
Oggi i militari morti sono 38 (più due medici della Croce Rossa), i malati
oltre 250: tutti sono stati in missione in Bosnia e in Kosovo, in aree dove
gli aerei della Nato hanno sganciato oltre 40mila proiettili all'uranio
impoverito (10.800 in Bosnia, fra l'agosto e il settembre 1995; 31mila in Kosovo, nella primavera 1999), e tutti si sono ammalati di varie neoplasie, soprattutto linfomi di Hodgkin.
È la Sindrome dei Balcani, la "variante italiana" della
Sindrome del Golfo che colpì i militari statunitensi che parteciparono alla
prima guerra contro l'Iraq, nel 1991, anche loro venuti a contatto con
l'uranio impoverito (le scorie del processo di arricchimento dell'uranio, utilizzato nei proiettili per la sua alta capacità perforante).
In questi anni ci sono state le indagini della commissione scientifica di
nomina ministeriale e della commissione parlamentare d'inchiesta (che non
ha ancora concluso il suo mandato) e le ricerche scientifiche indipendenti
che hanno evidenziato il legame fra uranio impoverito e linfomi; sullo
sfondo omertà, depistaggi, lobby da proteggere, superficialità e pesanti
responsabilità dei vertici militari e di parte della classe politica che non ha esitato a mandare allo sbaraglio giovani soldati pur di non mettere in discussione l'alleanza politico-militare con gli Usa.
Vicende complesse raccontate nel libro di Stefania Divertito (Uranio. Il nemico invisibile, Infinito edizioni, pp. 192, euro 14, tel. 06/9309839): un'inchiesta approfondita e documentata che ricostruisce puntualmente la vicenda e pubblica documenti inediti di ministeri, comandi militari e laboratori scientifici italiani, Usa e Nato.
Come quello del Los Alamos National Laboratory del marzo 1991 in cui,
all'indomani della Guerra del Golfo, si dice che "l'uranio si comporta benissimo in battaglia ma, nonostante ciò, se ne sconsiglia l'uso e si consiglia di monitorarne gli effetti; diversamente l'utilizzo diventa politicamente inaccettabile e per questo sarebbe addirittura meglio cancellarlo dagli arsenali". Oppure quello del Department of Army (Usa) dell'agosto 1993 in cui si sostiene che "quando i soldati inalano o ingeriscono polveri di uranio impoverito, si incrementano le possibilità di ammalarsi di cancro". Fino alle informative del nucleo chimico-batteriologico delle nostre Forze armate che, il 22 novembre 1999 - proprio mentre Luca Sepe, e tanti altri come lui, "respirava fumo e polveri di ogni tipo senza alcuna protezione" -, invitano i militari a proteggersi dall'aerosol di uranio impoverito, le cui particelle, se inalate, sono cancerogene.
Nel dicembre 2000, l'allora ministro della Difesa Sergio Mattarella
istituisce una commissione d'inchiesta scientifica presieduta dall'ematologo Franco Mandelli che, dopo aver lavorato per mesi su dati errati (peraltro forniti dallo stesso ministero), nel giugno 2002 pubblica la relazione, la terza: fra i militari reduci in Bosnia e Kosovo esiste un eccesso di linfomi "statisticamente significativo" ma non si può stabilire con certezza se dipenda dall'uranio impoverito.
Una correlazione che invece dimostra la ricerca indipendente
di Antonietta Monica Gatti, dell'università di Modena, la quale, grazie a
uno speciale microscopio a scansione elettronica, rileva la presenza di
particelle di metalli pesanti inorganici, dall'alto potenziale cancerogeno, finite negli organismi dei soldati in seguito all'inalazione di uranio impoverito esploso.
L'uranio, quindi, "non sarebbe il killer dei nostri soldati ma il mandante
delle malattie" che li hanno uccisi.
Domenico Leggiero, dell'Osservatorio tutela e diritti per il personale
militare, sostiene che da parte dell'Italia c'è "colpa e dolo": "colpa, nei termini in cui è stato sottovalutato il pe-ricolo. Dolo per quanti conoscevano i rischi, ma hanno ritenuto che la ricaduta potesse essere minore e hanno
sperato che nessuno potesse accorgersi dell'esistenza di un problema". E punta il dito contro i "poteri forti": "le lobby delle armi; il potere politico che
ha autorizzato certe missioni internazionali senza tutelare i soldati; e
chi ha firmato cambiali in bianco con gli Usa".
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