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Scrivere nel Sudtirolo plurilingue

Tensione e pace. Non sono questi gli elementi che mettono in moto l’uomo di ogni tempo e gli consentono di elaborare pensieri, sentimenti, pulsioni di vita?
13 novembre 2006
Paolo Valente

L’Alto Adige è terra di tensione e di pace. E i contrasti non sono solo nei rapporti tra le persone e tra le lingue, ma in primo luogo nella natura. Proprio nella natura delle cose. Che cos’hanno in comune gli infidi ghiaioni, popolati di veloci marmotte, alle falde di un’inaccessibile parete dolomitica, e la verdeggiante, grassa, odorosa pianura del fondovalle? Nulla, o forse tutto. Che cosa spinge la mano del contadino, aggrappato coi denti ad un pendio brullo, a roteare la falce per ore e ore, e cosa conduce il turista spensierato a trascinarsi senza meta sotto il sole di maggio, ad appoggiarsi poi ad una ringhiera smaltata e a fissare il fiume? Pulsioni del tutto diverse, o forse identiche. Che cosa porta donne uomini a dire pane anziché Brot, amore anziché Liebe, oppure sia pane che Brot, sia amore che Liebe, se non la stessa fame e la stessa passione?

E’ il contrasto manifesto, croce e salvezza di questa terra contesa (ma non è così ovunque?), che ti mette una penna in mano e ti invita a dare voce a ciò che non si vede.

In molti, in passato, hanno subito il fascino di un luogo, ad esempio Merano, in cui si respirano l’odore acre delle lame che si incrociano ed i profumi inebrianti di una perenne primavera, capace di produrre un germoglio là dove la morte aveva avuto l’ardire di cantare vittoria.

"La città stessa, antichissima come rivelano i portici ed i castelli, ha pure residenze nobiliari e nuove ville di buon gusto e quindi fonde passato e presente in un insieme gradevole. Bianca e tuttavia immersa nel verde di parchi e giardini pubblici, si estende gradualmente verso i prati ed i vigneti, che a loro volta salgono verso le scure selve. I boschi si perdono in alto scalando le rocce, il cui grigiore viene coperto progressiva­mente dal freddo biancore delle nevi e l’alta linea dentellata delle montagne si staglia contro il blu del cielo infinito. Il ventaglio dei colori qui si apre con toni puri e chiari: nulla stride e tutti gli opposti si risolvono armoniosamente. Il nord ed il sud, la città e la campagna, la Germania e l’Italia, tutti questi aspri contrasti si fondono placidamente e persino gli elementi più ostili sembrano qui concilianti e familiari. Nel paesaggio non ci sono movimenti bruschi, da nessuna parte c’è una linea spezzata o infranta; qui la natura ha scritto sul mondo con grafia equilibrata e tondeggiante e con lettere multicolori la paro­la Pace." (S. Zweig, Herbstwinter in Meran, in: Fahrten, Landschaften und Städte, Vienna 1919, pp. 104-111)

Sono parole che presto compiono un secolo di vita. Le scrisse un allora sconosciuto Stefan Zweig, dopo un breve soggiorno nel “mondo di ieri” dei vigneti di castel Labers, nei primi mesi del 1908. Zweig vide, o volle vedere, “aspri contrasti che si fondono placidamente”. Come altri, prima e dopo di lui, fu rapito dalla bellezza e da una vagheggiata armonia degli opposti. Ne fu ingannato? Non si accorse dei muratori straccioni, costretti a turni estenuanti nei cantieri dei grandi alberghi, cacciati sotto il ponte a cucinare la polenta, per non turbare l’idillio della bella società che sfilava sulla promenade. Non colse, in quel 1908, i venti di guerra e le parole ottuse del nazionalismo imperante. Ciò che impresse sul suo taccuino, lo scrittore, fu una parola difficile, fuori luogo, esagerata: “pace”. Forse ebbe ragione. Seppe conferire in tal modo un senso al contrasto, allo scontro, all’insanabile inconciliabilità delle cose.

Scrivere, in Sudtirolo ed in tutti i luoghi del pianeta dove domina il contrasto, non significa solo “descrivere”. Non ci si può accontentare di quello – ed è molto – che impressiona la vista. La realtà visibile, sia essa brutta o bella, perde ogni consistenza se sfugge o svanisce quel qualcosa che potremmo anche, prudentemente, timidamente, chiamare “anima”.

Così avvenne, a metà degli anni ’30 del secolo scorso, per Luigi Bartolini, scrittore, poeta e pittore, confinato per alcuni anni dal regime fascista nella città del Passirio. Per lui l’anima di Merano ebbe un volto ed un nome, quello di Anna. Andata via lei, la sua musa, all’artista non rimase che abbandonare per sempre la città.

"Partire era la miglior cosa, da un luogo dove io non vedevo che Anna. Ché, senza di lei ogni cosa cadeva come in un teatro al termine della rappresentazione. L’acqua del Passirio, l’acqua che di gennaio si disgela e corre sotto il ghiaccio, il picchio che archeggia sopra il fiume trasvolando pei querceti di destra e di sinistra, il contadino che pota il melo, ed altre cose belle, come mi erano sembrate in compagnia di Anna, ora le vede­vo come fossero lo scheletro di se stesse. Sprovviste d’amore non mi piacevano più. Ed anzi mi accorgevo che venivo guastando, in me, quanto avevo edificato passando per le rive, pei boschi, per gli antri di verdura insieme ad Anna Stickler." (L. Bartolini, Vita di Anna Stickler, Cava de’ Tirreni 2002 (nuova edizione), pp. 146-147)

Merano era lì, bella come prima, ma aveva perso l’elemento che conferisce alle cose fascinose la capacità di eccitare i sensi e di stimolare i pensieri. L’anima. La bellezza non basta a se stessa.

Se fosse rimasto ancora per qualche mese, Bartolini avrebbe forse potuto essere sfiorato dal sibilo tenue e via via più impetuoso dell’anima che abbandona il corpo. Sul viale della stazione agghindato d’autunno avrebbe incontrato decine, centinaia di ebrei “stranieri”, con le loro cose impacchettate in fretta e furia, inseguiti da un perentorio ordine di abbandonare la città. Partire per loro non fu “la miglior cosa”. Oppure invece sì, dato che i pochi rimasti, qualche anno più tardi, furono raccattati di casa in casa da zelanti gendarmi, sbattuti in uno scantinato e poi costretti in due auto per un viaggio di sola andata.

Se fosse rimasto un anno in più, Bartolini, avrebbe forse incontrato di fronte al treno il piccolo Joseph Zoderer, ignaro bambino di quattro anni. L’avrebbe senz’altro notato per via dei pantaloni corti e delle calze di lana. Era una fredda mattina di gennaio. Ancora oggi si chiede, Zoderer, perché “ce n’andammo” (J. Zoderer, Ce n’andammo – Wir gingen, Bolzano 2004).

Stefan Zweig, Luigi Bartolini, Joseph Zoderer e tanti altri non hanno dimenticato il Sudtirolo. Ci sono rimasti invischiati. Ne hanno scritto. Ne hanno dovuto scrivere.

Sono nato a Merano, a lume di candela, all’inizio di novembre del 1966. In quegli stessi giorni, quarantotto anni prima, entravano in città le avanguardie dell’esercito regio. Sfilavano al cospetto di gente esausta e umiliata. Offrivano maccheroni ai meranesi affamati. Mezzo secolo dopo la dinamite turbava i sonni degli altoatesini di lingua italiana, mentre le forze politiche lavoravano con reciproca diffidenza a ridisegnare lo statuto di autonomia.

Sono nato a lume di candela perché, ai primi di novembre del 1966, ci fu una replica in tono minore del diluvio universale. Tutti ricordano Firenze allagata, i suoi tesori d’arte seriamente minacciati. Ma anche Merano fu percossa dalle acque e nell’ospedale saltò la corrente elettrica.

In quella stessa clinica, Fonti San Martino, ventisei anni più tardi morì mia nonna. Era nata nel 1905 nei pressi di Sarajevo dove la sua famiglia trascorreva la bella stagione e l’autunno a disboscare foreste. Venivano da un villaggio dell’altipiano veneto, con le case di pietra ed il tetto di paglia. Il paese, nel 1916, fu raso al suolo dalla furia dei colpi incrociati delle artiglierie italiana ed austriaca. La gente vi parlava ancora, in parte, il cimbro, un’antica lingua germanica, retaggio di un lontano passato.

Il nonno trasferì la sua segheria a Merano agli inizi degli anni ’30. Non so perché le cose andarono male. Riuscì a farsi assumere in una fabbrica di concimi chimici. Pochi mesi dopo morì di polmonite. Mio padre aveva sette anni, unico maschio di cinque figli. Nacque, mio padre, pochi mesi dopo la salita al potere di Hitler. Proprio allora a Merano si riversarono decine di famiglie ebree alla ricerca di una nuova patria: parlavano tedesco, italiano, polacco, ceco, slovacco, ungherese, rumeno, lituano, lettone, turco, svedese, olandese, francese, e spagnolo. Una piccola colonia russa celebrava riti ortodossi a Maia Alta, nella chiesa di San Nicola Taumaturgo. Gli ospiti fissi inglesi tenevano il God service nel piccolo tempio anglicano. Agli altoatesini di lingua tedesca, allora, era precluso l’uso della madrelingua nella scuola, negli uffici e nella vita pubblica.

L’altro mio nonno arrivò con i suoi nel 1939 da una valle del Trentino, il vecchio Tirolo Italiano. Aveva combattuto la Grande Guerra con la divisa dell’esercito austriaco. Era stato, prima del conflitto, un capocomune fedele all’impero e all’imperatore Francesco Giuseppe. Mantenne la carica anche dopo la guerra. Qualche tempo dopo la marcia su Roma si lasciò sfuggire una frase che non piacque alle camice nere. “Sotto l’Austria le cose funzionavano meglio”, disse, o qualcosa di analogo. Fu mandato per alcuni mesi al confino in Sardegna.

Quando si trasferì, armi e bagagli, in Alto Adige, il duce e Hitler avevano stretto da poco il loro patto d’acciaio, l’Austria era scomparsa dalla carta geografica, gli ebrei meranesi erano costretti al loro ennesimo errare ed il piccolo Zoderer, braghe corte e calzetti di lana, aspettava infreddolito alla stazione, mentre il padre, in cuor suo, molto probabilmente già si chiedeva che diavolo stesse facendo.

Tutto questo per dire che il sudtirolese italiano e l’altoatesino tedesco non sono altro che un coacervo di storie diverse. Differenze che non vanno negate né esasperate, ma accolte. Estrarne identità pure è una forzatura, una finzione. L’Alto Adige, Merano, non offrono molto agli amanti del grigio. La politica ed anche parte della cultura amano le semplificazioni. Hanno bisogno di ridurre a pochi elementi una realtà complessa e multiforme. Tracciano confini, disegnano identità, costruiscono gabbie ideali nelle quali sospingono i “nostri” e gli “altri”. Si impossessano delle differenze omologandole in insiemi falsamente coerenti. Esaltano il contrasto violento e temono al tempo stesso una realtà variopinta. Impongono simboli e bandiere, erigono muri, si fanno muro.

Ha ragione Claudio Magris, nella sua impietosa analisi:

Gli scrittori tirolesi godono di una for­tuna invidiabile ossia di un gretto establishment politico­-culturale che, proclamando le incorrotte e schiette virtù della Heimat e della sua tradizione, conferisce involonta­riamente importanza e autenticità a ogni deviazione, an­che banale ma comunque liberatoria, da questo model­lo. Grazie al conservatorismo talora retrivo della cultura ufficiale sudtirolese, è facile essere uno scrittore osteg­giato e meritarsi considerazione in virtù della prepotente ostilità dei benpensanti. Atteggiamenti letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o pate­tici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo.

Tutto ciò impone alle anime perse la necessità di capire. Molte risposte le dà la storia, quando essa non è addomesticata. La grande storia e le piccole, insignificanti vicende dei nostri nonni. C’è davvero un confine? E dove passa, chi l’ha imposto? Chi siamo noi, che cosa ci differenzia l’uno dall’altro? Che cosa ci accomuna? Solo la lingua o mille altri impercettibili fattori?

Chiunque, in Alto Adige, non può non fare i conti con la propria appartenenza ad un gruppo linguistico o a più gruppi linguistici (ma non è così in tutto il mondo?). Il primo passo da compiere è trovare le chiavi della gabbia dell’identità. Oppure scardinarla, morderne i legacci.

Gli scrittori tirolesi – ha scritto ancora Magris – sono ossessionati dal confine – dalla necessità e difficoltà di varcarlo – e dall’identità e ri­cercano quest’ultima nella negazione dell’identità com­patta cara al potere culturale del loro paese. Con la sofferta ma abusata e facile retorica frequente negli scritto­ri di frontiera, per esempio quelli triestini, si collocano anch’essi volentieri dall’altra parte, addolorati ma pure compiaciuti di sentirsi italiani fra i tedeschi e tedeschi fra gli italiani, avidi di essere brutalmente attaccati dai custodi delle memorie patrie per poter dire, con decla­mata sincerità, che soffrono di non saper dire a quale mondo appartengono. (C. Magris, Microcosmi, Milano 1998, pp. 223-224)

La frontiera è una scusa o esiste sul serio? La letteratura può lanciare ponti? Deve farlo? Essa è pur sempre l’ambito nel quale l’impossibile diventa possibile, lo strumento che permette di rappresentare il conflitto, il contrasto, potendone rielaborare i danni e le opportunità in modo incruento. E’ il luogo in cui dare espressione al desiderio di andare oltre quelle barriere che esistono “solo” nella realtà.

Scrivere significa innanzitutto voler capire. Non accontentarsi di risposte fasulle. Andare alla ricerca della storia ancora non raccontata, di personaggi reali, orfani di un copione. Dei protagonisti nascosti. Di coloro che, al cospetto della deificazione della lingua, preferiscono restare muti (senza lingua, senza parola, senza letteratura). Del luogo in cui qui “la natura ha scritto ... con grafia equilibrata e tondeggiante e con lettere multicolori la paro­la Pace”. Dell’acqua del Passirio che di gennaio si disgela e corre sotto il ghiaccio, del picchio che archeggia sopra il fiume trasvolando per i querceti di destra e di sinistra, del contadino che pota il melo, di tutte quelle povere cose che ci sembrano belle solo se riusciamo ad intuirne – o ad inventare per loro – un’anima.

Paolo Valente

(da: B. Simonsen, Grenzräume. Eine literarische Landkarte Südtirols, Raetia 2005)



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