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Alan Dershowitz, Preemption. A knife that cuts both ways, Norton 2006

28 novembre 2006

Cattedra a Harvard di diritto penale, e aule affollatissime Alan Dershowitz, celebre per l’assoluzione di O. J. Simpson, è artefice in realtà di anche più notevoli imprese - su tutte, in nome della tesi per cui il terrorismo dilaga perché funziona, ovvero perché non abbiamo divelto via a sufficienza i palestinesi, una sintesi sottovuoto di trent’anni di Medio Oriente: a sinistra, i ‘palestinian terrorist acts’, a destra i ‘benefits to palestinian cause’. E neppure una volta la parola Israele.
Dopo averci spiegato, nel suo libro numero 22, che i ‘rights’ derivano dai ‘wrongs’, in un’eccentrica riformulazione del vecchio ‘ex iniuria ius oritur’, Dershowitz approda così, nel suo libro numero 24, alla guerra preventiva: l’intera storia del diritto non è altro infatti, che un adattamento dell’ordinamento a nuove circostanze: quello che prima era un wrong, adesso è un right - e mai come oggi siamo in una new age, e abbiamo bisogno di new standards. Perché il pericolo viene da un inedito incrociarsi di radicalismo e tecnologia. Non solo il nemico è irrazionale, disposto a suicidarsi e insensibile dunque a qualsiasi minaccia: un nemico che non si può che incapacitare, annientare - la metafora è per Dershowitz lo zoo (e l’esempio, di conseguenza, Guantanamo); ma soprattutto ci ostiniamo nobili a preferire dieci colpevoli in libertà, invece che anche un solo innocente ingiustamente in carcere: e a ignorare che la scelta è diventata, più esattamente, tra quell’innocente e l’apocalisse nucleare. Anche perché le tecniche preventive, comunque, sono già e ovunque largamente usate: non è questione allora che di pragmatismo: legalizzare, regolamentare un fenomeno esistente, senza ipocrisie, e proprio per evitare sue distorsioni e degenerazioni - i fatti, non i princìpi, somma lezione americana.
Rovistando dunque da Abramo ad Alice nel paese delle meraviglie, Dershowitz ci illustra una prevenzione che non è in fondo che buonsenso e saggezza popolare, solo il fido proverbio dice, della mela al giorno che toglie il medico di torno - andando a disseppellire l’invenzione medioevale del ‘justice of peace’, insieme polizia pubblica accusa, giudice giuria e agente penitenziario con l’obiettivo di ‘impedire a un uomo di compiere un crimine che può compiere, ma che non ha ancora compiuto’. Più che prevenire il crimine cioè, predire il criminale: per quanto gli studi nel settore infatti non siano ‘met with scientific approval’, è comunque ‘widely believed’ che un accurato ‘profiling’ consenta di individuare ogni persona ‘minded to break the peace’. Sua nonna non deve avergli insegnato che a volte il rimedio è peggiore del male: perché quanto accurato possa essere questo profiling, l’ebreo Dershowitz lo ha dimenticato - scrive sereno: ‘it has been suggested that the presence of the XYY karyotype may be associated with certain kinds of crimes’. Dobbiamo dunque battezzare rarefatti neologismi come la ‘focused preemption’, elegante sdoganamento dell’assassinio mirato, che poi in fondo - minimizza i danni collaterali: quasi un assassinio umanitario. E d’altra parte - i terroristi non sono mai criminali solo potenziali, e quindi anche potenziali innocenti, ma tutti già ‘past criminals’: due sole infatti le ipotesi: preparano un attentato, e il tentativo è penalmente rilevante; o dall’intelligence emerge, e inequivoca, la loro pericolosità; (qualcuno avvisi i fiduciosi clienti dell’avvocato Dershowitz che la colpevolezza non si decide in tribunale).
In Europa dice Dershowitz, spesso non si ha la distinzione linguistica tra preemption e prevention: ‘preempt’ significa mandare a vuoto: è l’idea cioè del disinnesco di una minaccia imminente. Più che una guerra preventiva, una autodifesa anticipata - e allora semplicemente dice, un inalienabile diritto naturale alla sopravvivenza. Non bisogna chiedersi ‘se’, ma piuttosto ‘come’: perché la prevenzione è un continuum, una guerra ma anche solo una barriera di sicurezza o un interrogatorio coercitivo (da noi approssimativamente si traduce tortura). E comunque, intendiamoci - sono in tanti tra i giuristi a cercare di adeguare le attuali restrizioni al ricorso alla forza a un contesto postwestfaliano di attori non statuali - se è solo questione cioè, e come sempre, di scalpello: precisare, giuridicizzare appunto la nozione di guerra giusta, per rendere la guerra possibile quando è necessaria. Ma si è giustificati dice Dershowitz, in una situazione in cui ‘un attacco è l’unica reazione ragionevole’: non è importante cioè l’imminenza ma la pericolosità della minaccia, perché chi aspetta a volte perde il momento migliore per agire. Per cui, superando la tabellina palestinese, Dershowitz ci consegna adesso un pallottoliere, per ponderare pragmatici costi e benefici: chi raggiunge un ‘minimum total score’ è legittimato alla sua ‘lethal action’ - muore anche un bambino, meno dieci; ma lanciava pietre, più tre: giustizia creativa, più che preventiva. E infatti il calcolo certo, è un po’ complesso: nel ‘testing case’ dell’Iraq (è che in Europa non abbiamo molte distinzioni linguistiche: è solo il crash test dell’egemonia statunitense, non una guerra manichini, non persone), ‘è ancora presto per conclusioni univoche’ - dopo tre anni: ‘ancora presto’: criteri per capire se intraprendere un’azione preventiva.
Per cui insomma, sarebbe già abbastanza - se non fosse che la cosa più terribile di questo libro non è questo libro, ma la National Security Strategy di cui il libro è spiegazione e sviluppo: il documento cioè in cui Bush ci rassicura dopo l’11 Settembre: le azioni americane saranno ‘chiare’, la forza ‘misurata’, la causa ‘giusta’. Senza la minima comprensione di un nemico rapidamente archiviato come irrazionale, e che sceglie consapevolmente invece, secondo Robert Pape, la sua strategia contro le ingerenze occidentali in un contesto di asimmetrie di risorse - comprensione che Dershowitz d’altra parte sconsiglia: dare spazio alle rivendicazioni del nemico è incentivarlo. Ma oltre che inconsistente giuridicamente e fragile politicamente, questo è anche un libro povero filosoficamente: ‘e se torturare un innocente potesse salvare dieci milioni di persone? A un certo punto l’integrità morale non diventa l’egoismo in cui la propria purezza è più importante delle vite altrui?’, scriveva già Joseph Nye sfidando i pacifisti alla novità nucleare, le volte che rifiutarsi di avere ‘dirty hands’ diceva, significa non avere ‘hand at all’: perché la ‘moral virtue’ non è che la qualità del ‘moral reasoning’, ovvero una valutazione dei princìpi ma anche delle conseguenze, dove nel ‘reasoning’ è però implicita una interazione con gli altri, il tentativo di una valutazione condivisa. Niente di tutto questo nel solitario Dershowitz - ma come insegna Bobbio, il problema non è quello del Giusto ma quello del Terzo, delle istituzioni: se quando qualcuno ripropone il machiavelliano ‘conviene bene che accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi’, è vero che il fine giustifica i mezzi diceva, ma chi giustifica il fine? Perché spesso la divaricazione tra i princìpi e la realtà, avverte Luigi Ferrajoli, non è un segno della loro inattualità, ma un cedimento invece alle vocazioni eversive dei poteri forti: non tutte le ‘realtà’, non tutti i ‘fatti’ sono per questo legittimi, solo in virtù della loro esistenza - a volte i wrongs rimangono wrongs.
Teorie pericolose, in un fondamentalismo secolare e speculare a quello islamico, che nella pretesa difesa dell’Occidente finisce per scardinarlo culturalmente: è quella che Richard Falk definisce la ‘less spectacular way of losing’ - se è bellissimo, e dimenticato, quel ritratto della democrazia, e di tutta l’eredità costituzionale del nostro Novecento, nei passeggeri dell’aereo che va a schiantarsi in Pennsylvania quando per scegliere cosa fare, decidono di votare. Oggi che con la globalizzazione ognuno è straniero, e da ogni fortino si spia un deserto dei tartari, quasi l’ipocondria fosse l’unica forma di salute - oggi che nessuno più dei ‘rogue states’ dovrebbe sentirsi minacciato, e in quella condizione allora di ‘supreme emergency’ che per gli americani autorizza a violare qualsiasi regola: e un sopravvissuto probabilmente la racconterebbe così: stava per uccidermi per autodifesa, ho dovuto ucciderlo per autodifesa. Perché i fini in politica sono sempre imprevedibili e incerti, diceva Hannah Arendt, e i mezzi dunque più importanti dei fini: ogni azione violenta rende il mondo più violento: l’ultima razza soggetta, diceva del colonialismo, sarebbero stati gli inglesi.
Perché è questo in fondo il vero ‘knife that cuts both ways’: nel tentativo di limitare la guerra preventiva, si finisce per legittimarla. Non a caso Dershowitz sguaina anche il Kosovo, primo grimaldello della guerra giusta - perché i wrongs spesso non solo non si trasformano in rights, ma generano ulteriori wrongs. Oggi che il problema, ricorda Danilo Zolo, non è l’11 Settembre ma il 1989, non la nostra sopravvivenza ma il nostro dominio: perché è chiaro che una guerra così indefinita non può essere vinta, o più esattamente conclusa - che l’idea del terrorismo, volutamente vaga, non è che il manganello della globalizzazione. Perché conosciamo poi il trucco finale dei Dershowitz: pensate se senza Chamberlain e l’appeasement. Ma allora perché non pensare senza il patto Molotov-Ribbentrop, senza i nazionalismi, o addirittura con il disarmo il multilateralismo, con il diritto internazionale? Non esiste solo la guerra, solo la violenza. La politica è spirito di iniziativa, è vero - ma è anche una dote quasi poetica, diceva Hannah Arendt, l’immaginazione.

*Per chi e’ ancora curioso -
Geminello Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Laterza 2004

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