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Il confine e' una scusa o esiste davvero?

"La citta' sul confine" di Paolo Valente - OGE Milano

Scrivere, scrive Paolo Valente, nel suo "Scrivere nel Sudtirolo plurilingue"
(http://italy.peacelink.org/nobrain/articles/art_19416.html)
non puo' significare solo descrivere.
Scrivere dovrebbe significare, prima di tutto, voler capire.
E dunque scrivere deve significare descrivere con l'anima; capire con l'anima.
19 dicembre 2006

Ventiquattro racconti in questa "citta' sul confine" di Paolo Valente, disposti cronologicamente dal neolitico, passando per il Medio Evo, l'orrore delle guerre, fino ad arrivare ai tempi nostri, per poi tornare da dove si era partiti!
Ventiquattro racconti ambientati tutti a Merano, la citta' sul confine; la citta' di Paolo Valente. Ventiquattro racconti ambientati tutti la', dove il confine (sia esso amministrativo, politico, simbolico, metaforico o altro ancora), mai e' visto come una barriera e sempre come un ponte...

Fantasmi e uomini; protagonisti emblematici e reali; leggende e storia. Ogni personaggio sembra svanire nel girare pagina e cambiare capitolo... poi invece, improvvisamente, tutti (o quasi) tornano nelle fantasie d'inverno dello scrittore; uno di quegli scrittori che, nel maneggiare la penna, mescolano vecchio e nuovo e scarabocchiano sulle pagine del tempo!
E il poeta? Il poeta forse confuse le montagne avvolte nella nebbia e le scambio' per nubi; ma sapeva perfettamente che qualunque cosa rimanga indietro in questa vita greve di lentezza non e' perduta; nulla; ne' i fiori appassiti, ne' i fiumi smarriti, ne' i sogni non ancora realizzati...
Ma sto anticipando troppo e questo credo non sarebbe piaciuto al poeta e non piacera' oggi allo scrittore, immagino!

All'inizio (e alla fine) del libro l'uomo di Similaum; poi Corbiniano, vescovo senza sede; i conti del Tirolo che fecero scolpire nella pietra l'aquila disegnata da un fiorentino in fuga; dopo Sissi che cerco' li', disperatamente, cio' che doveva per forza essere "altrove"; e prima Mathilde che mai piu' riusci' a trovare Paolina; e poi Gino Bartali, con il suo traguardo finale. E prima ancora Modesto, un fuochista che nulla capiva di parole di storia e geografia e ancor meno di grammatica, ma che un giorno, illuminato da un "Consigliere", finalmente capi' che ovunque, a Gorizia come nel Tirolo, la colpa di tutto, anche di quella polvere nera che ogni giorno gli impastava il viso e le mani e le braccia, era degli ebrei! Cosi', di Sara null'altro rimase che una bambola; d'altronde anche lei era un'ebrea! Luigi invece non era un ebreo, ma un bambino nato nel 1906, un bambino che cresce in bilico fra due identita' linguistiche, e che sente spesso il padre farsi l'identica domanda: "cossa semo noialtri?"; Luigi, poi, cresciuto e diventato ormai Luis, si chiedera' se parlare sia sinonimo di essere e dunque: se uno parla tedesco e' tedesco? Poi pero' capira' che piu' semplicemente parlare, per lui e per la sua famiglia, e' sinonimo di mangiare! Il capitano Berti, invece, dal gruppo "prigionieri" , guardando oltre il reticolato vedra' una Merano con l'anima infranta e quel misto inscindibile di vita e di morte gli ricordera' l'odore del mare.
La pioggia cadde, subito dopo la strage del 30 aprile del 45; una pioggia tiepida, come un pianto tardivo del cielo che scese per annacquare la memoria, lavare le colpe e ripulire il selciato dalle chiazze di sangue non ancora rappreso...
Ma l'immagine piu' struggente (e crudele) di tutto il libro (un libro dove ci sono effettivamente anche delle immagini!) credo sia, (o almeno, per me e') quella di Peter d'autunno. Il papa' di Peter, che, costretto ad abbandonare la sua casa, prima di partire, sale sul balcone e distrugge il nido delle rondini!

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