La normalità della “cultura delle armi”
Succede, a scadenze non prestabilite, che qualcuno perda la testa e dia sfogo ad un progetto di morte. Pare sia fisiologico, come il cambio di stagione. Può tardare un po’, ma prima o poi arriverà. E’ cosa certa. Detto così suona un po’ cinico, ma è la realtà ad esserlo, non certo le parole.
Ed è successo di nuovo. Un ragazzo si alza una mattina e decide che è quello il giorno in cui deve dar vita al suo piano. Entra da qualche parte e spara, all’impazzata. Questa volta è successo in un campus universitario della Virginia.
Dopo si verrà a sapere che quel ragazzo era depresso, che ce l’aveva con il mondo e che da tempo progettava la sua personale “resa dei conti”. Fa venire i brividi pensare che il suo progetto di riscossa si traduca in un’insensata quanto ingiusta fine di qualcun altro. Che, in poche parole, si può riassumere in un essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Mi sono sempre immaginata la scena di una persona che entra in un supermercato negli Stati Uniti e fa le sue ordinazioni. Che so, qualcosa come “mi dia due etti di prosciutto e una mitraglietta, grazie”. Si, me la sono immaginata educata questa persona.
Ma si, forse la folle sono io che continuo a domandarmi come sia possibile vendere e comprare armi con così tanta facilità. Perché, a ben guardare, per perdere il controllo non è necessario nemmeno che uno sia chissà quanto squilibrato, basta solo un po’ di superficialità, un attimo in cui i nervi sono troppo tesi e non li si tiene a bada. Quando ci si trova in quella situazione, a volte, ci vuole davvero poco per degenerare. E se si ha un’arma a disposizione, allora il rischio di degenerare di brutto è alto.
E’ sicuramente vero, come sostiene Ani DiFranco in un suo testo, che “ogni strumento è un’arma se lo impugni nella maniera appropriata”, però un conto è armarsi di, che so, una padella, piuttosto che una sedia, piuttosto che un coltello, e un conto è armarsi di una pistola. Il bilancio di un’eventuale crimine è potenzialmente più pesante con un’arma da fuoco. C’è tutto un caricatore dietro che aspetta solo quei cinque minuti in cui il cervello sia in buio o, al contrario, abbia una spietata lucidità da killer.
Se poi a questo aggiungiamo la “normalità” con cui il possesso ed utilizzo di armi sia radicato nella cultura di un Paese, il passo verso una possibile degenerazione è ancora più breve. Si parla di diritto del cittadino a difendersi. Sacrosanto! Ci mancherebbe! Ma davvero ci si sente più sicuri con un’arma in mano? E i risultati sono quelli sperati o c’è solo più paura in giro?
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