Né arte né vandalismo,il writing è il segno del nostro tempo
C 'è chi lo considera arte e chi un crimine, chi insorge contro i piccoli vandali della città e chi invece assiste, senza troppo acclamare o infierire, al loro passaggio silenzioso nella notte. Il bello del writing è che, chi lo fa, non si riconosce né in uno né nell'altro, e se l'accusa di essere un vandalo è rispedita al mittente senza mezzi termini, difficilmente i writer stenteranno a negare "a tutti quei segni che si vedono per strada" (e che comprendono una vasta gamma di grafismi che dalla firma a pennarello arriva fino al "pezzo" - così si chiama in gergo una scritta o un disegno più elaborato) un'accezione artistica, senza però per questo ritenersi necessariamente dei pittori.
In tempi-pantani come questi, di guerre preventive esportate fuori dai confini in nome della democrazia e di guerre dichiarate in casa a sostegno di un'idea poco chiara di decoro, apporre ulteriori puntini sulle i può tornare utile a un duplice scopo: evitare che le più che legittime obiezioni alla "tolleranza zero" promossa dal neo partito dei sindaci non siano liquidate a «ideologiche difese degli ultimi» - niente di meno appropriato per collocare adeguatamente i writer all'interno della scala sociale; rendere giustizia alle culture giovanili per quello che sono, senza ricorrere a visioni pseudo-romantiche a tutela della loro autenticità (e i writer spesso sono chiamati in causa a riguardo, probabilmente perché più esposti degli altri alla visibilità e, di conseguenza, alla pubblica gogna). Primo: scrivere sui monumenti, su beni artistici e archeologici è azione condannata, prima che dagli amministratori locali, dai writer stessi (questo tanto per chiarire che i famigerati vandali un'idea di decoro e di patrimonio pubblico ce l'hanno eccome). Secondo: chi controbatte alla deturpazione metropolitana ad opera dei graffiti con l'idea che essi intervengano per mezzo del colore a migliorare l'estetica, prevalentemente a tinte grige, delle nostre città, esprime per lo più un giudizio da fruitore, che non incontra né sostenitori né cittadinanza nel pensiero comune dei writer. «La città non è più il luogo della produzione ma il poligono dei segni», ebbe a dire già nel lontano 1976 Jean Baudrillard in Lo scambio simbolico e la morte . Ed è quel «poligono» che bisogna immaginare per rendere giustizia a una cultura fatta di segni e che semplicemente utilizza la metropoli come una superficie per permettere al codice di rigenerarsi.
E' così da quarant'anni. Se facciamo un passo indietro la storia ci riporta alla culla, in una New York ultra-espressiva di primi anni 70 messa a ferro e fuoco dalla minaccia di una comunità nera sconfinata pericolosamente dal Bronx fin dentro le linee della metropolitana prima, e le gallerie d'arte del Lower East Side e di Soho dopo. Inizialmente erano il Nome ed un pennarello a punta larga. La leggenda narra di Taki 183, ragazzino di origine greca dell'Upper West Side di Manhattan, come del primo scrittore metropolitano, discendente dei nostri antenati nelle grotte di Lascaux. Era il 1971, nel giro di breve l'elaborazione delle lettere e l'introduzione della vernice spray inaugurarono l'era delle style wars («guerre di stile»), per il predominio sulle linee metropolitane, che hanno raffinato il writing così come oggi noi lo conosciamo. Nei primi scrittori non vi era la consapevolezza di porre un significato compiuto a ciò che stavano facendo; dipingere per loro era un modo di esserci e il subway e il Nome divennero il mezzo della loro emancipazione. Una spinta ad emergere che i writer chiamano getting up , e che incarna ancora oggi il senso di sfida attorno a cui ruota il concetto di rispetto tra i writer, misurato non sui valori economici - come la competizione di stampo produttivista impone - ma sullo stile, concentrato di creatività, capacità e comportamento. Il Nome rappresenta ciò che Norman Mailer definì nel 1974 the faith of graffiti («la fede dei graffiti»): scegliendo un Nome ogni writer mette in scena se stesso secondo l'identità a lui più congeniale; le mura, i vagoni della metro e le superfici della città sono deputati al dialogo o al conflitto, i luoghi ove si consolidano o si compromettono ogni volta rapporti di solidarietà e/o di ostilità reciproca.
Probabilmente neanche Norman Mailer avrebbe mai immaginato che quella «fede» scatenasse negli Stati Uniti una delle guerre interne più longeve ed inefficaci. Se tra il 1971 e il 1975 si verificarono sotto le linee della metropolitana due morti e 5mila arresti - senza contare i 4milioni di dollari spesi nella pulizia delle superfici deturpate - le azioni di contenimento hanno trovato continuità anche negli anni a venire, non ultima l'amministrazione guidata da Rudolph Giuliani che ha ripulito New York sguinzagliando poliziotti in ogni angolo della città e Vandal Squad (le squadre create appositamente contro i writer) nei depositi ferroviari o lungo i binari sotterranei della metropolitana.
Dalla fine degli anni 80 anche le metropoli europee hanno conosciuto una crescita esponenziale di segni, alimentata da una altrettanta produzione culturale sul fenomeno (due libri in particolare: Spraycan art e Subway art , della editrice Thames and Hudson, praticamente la Bibbia per i cultori dell'aerosol art). In Italia il writing ha cominciato ad affermarsi a partire dai primi anni 90, prima a Milano, poi Bologna e Roma, uniche tre città italiane che possono definirsi tali. A quasi venti anni di distanza dalla prima apparizione, la competizione oggi è spinta verso forme di grafismo esasperato, che individua nella presenza massiccia di firme l'unica chance per i nuovi arrivati di affermarsi sugli altri. Nel frattempo le istituzioni sono corse ai ripari (inasprendo leggi o concedendo muri legali nell'illusione di arginare le incursioni notturne), le fabbriche di bombolette (come la tedesca Belton) raccomandano l'uso «per arte e non per vandalismo» sui loro spray, le autorità non sapendo che pesci prendere nel gestire una situazione fuori controllo, hanno lasciato dietro di loro avvenimenti incresciosi e tragici come l'uso di arma da fuoco contro giovanissimi nei depositi ferroviari (il caso più eclatante avvenne nel marzo del 2006 a Como, con il ferimento quasi mortale di un ragazzo da parte dei vigili urbani).
Ciò che la cultura del writing esprime si può leggere a chiare lettere sui muri. Contrariamente all'ambiguità che si annida semmai nelle dichiarazioni di chi sta facendo della guerra ai writer una bandiera, sostenuta con vento in poppa da una politica di "tolleranza zero", rinnegata come definizione dai suoi stessi fautori. Lo ha detto chiaro e tondo ieri il sindaco di Firenze Leonardo Dominici sul Corriere della Sera : «La sinistra ha bisogno di una rivoluzione concettuale. Litigare su un'espressione linguistica come "tolleranza zero" è fuorviante», annunciando che la lotta al decoro urbano non si ferma ai lavavetri ma è estesa ai writer e alle prostitute (toccherà poi a mendicanti, parcheggiatori abusivi e via via scendendo).
Ha poi aggiunto: «Noi di sinistra (sì ha detto proprio così, ndr ) abbiamo il vizio di sostenere che il problema è sempre un altro. Invece il problema è proprio questo: le nostre città sono messe male». Dichiarazione che, a ben guardare, non si allontana molto dai vizi cui lo stesso Dominici fa riferimento. A rigor di logica il malessere di una città si misura su indici che interessano la qualità della vita dei cittadini, quindi i servizi, la sicurezza, la mobilità, l'accesso alla cultura e via dicendo. Ambiti di competenza amministrativa in cui, anche a sollecitare la fantasia, non si capisce come possano intervenire i writer. Evidentemente, per tornare alle parole di Dominici, il problema è un altro: se le città sono messe male è perché ha preso piede una strana idea di decoro portata avanti a colpi di scambio con il basso ed il banale. Perché se è il muro di casa propria ad essere imbrattato ci si indigna, se è a 50 metri probabilmente si rimane indifferenti.
Con le buone o con le cattive sarà comunque difficile estirpare il writing dalle nostre città. Segni cresciuti nella modernità, in fondo rimanerne senza significherebbe negare lo spazio ed il tempo che abitiamo. Dalle caverne in poi l'uomo ha scritto, e i segni hanno il dono di raccontarci cosa sta succedendo. Anche oggi. Nell'epoca dei cartelloni pubblicitari, giornali e televisioni in mano ai potenti, almeno i muri lasciamoli al libero esercizio delle mani e delle menti.
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