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Tutto quello che (non) ho capito di un libro

Un affermato giornalista scrive un libro per provare, sfidando se stesso, a spiegare (quelli che secondo lui sono stati) gli errori di valutazione da lui compiuti trentadue anni fa, in merito alla rivoluzione iraniana.
A me il suo messaggio arriva però al contrario, per questo ometto il titolo e l’autore.

13 marzo 2010

Oggi il giornalista lavora per Mediaset e collabora con “Il Foglio”, “Libero” e “Il Tempo”.

Trentadue anni fa era un inviato del quotidiano “Lotta Continua” e collaborava con Radio Popolare.

Si parla di Iran, oggi come allora. Allora per la rivoluzione contro lo scià; oggi per la paura dell’Islam “atomicizzato”.

Oggi il giornalista sa perfettamente da che parte stare: dalla parte di Israele che va salvaguardato ad ogni costo e ovviamente dalla parte di Bush, quel brav’uomo che ha esportato la democrazia in Iraq! E secondo i suoi occhi, di uomo sicuro e severo, tutto, o quasi, in Iran, allora, è stato un errore e si rammarica con se stesso per non averlo capito in tempo.

Trentadue anni fa il ragazzo, con il mare negli occhi, stava dalla parte di quello che lui definiva “il popolo del fango”. C’è la rivoluzione in Iran e il ragazzo parte, lascia la sua bambina e la sua vita in Italia e prova con tutto se stesso ad entrare dentro la realtà iraniana per capirla e raccontarla. Non è uno stupido, tutt’altro! Ha studiato, ha vissuto, ha sofferto, ha combattuto, ha perso e poi vinto… E in Iran osserva, guarda, capta, per poi scrivere. Ha la straordinaria capacità di mescolare agli eventi i sentimenti, e trasmette emozioni e stati d’animo oltre a fatti. E’ un ragazzo intelligente e per questo ha tanti dubbi. Dubbi sul dopo, soprattutto; dubbi, ad esempio, sul chador che le donne indossano durante le manifestazioni come bandiera contro lo scià! Ma si è lasciato contagiare e contaminare da un sogno che profuma di libertà e di equità sociale, e da dentro quel sogno scrive; scrive, ogni sera, per quel quotidiano italiano che è parte integrante della sua vita, dei suoi ideali dei suoi stessi sogni. Ha sempre avuto, il ragazzo con il mare negli occhi, orrore della morte e da sempre si è allontanato da coloro che hanno scelto di uccidere in nome della politica o della rivoluzione. E la morte anche in Iran lo angoscia e lo spaventa. E la paura, che gli è stata accanto in tre lunghi anni di latitanza inutile, torna in Iran, lo avvolge un’altra volta ancora! Ma la paura si mescola alla speranza, all’entusiasmo alla voglia di credere in un mondo migliore, più giusto. E il ragazzo ci crede! E ogni sera scrive e racconta, trasmette, con le parole, alcune piccole immagini tra le mille vissute con il groppo alla gola da uno che da anni evocava una parola che solo ora ha imparato a conoscere: rivoluzione!

Io non credo che quel giornalista allora avrebbe dovuto o potuto capire lo strascico di terrore e morte che quel sogno portava con sé.

Ciò che rimane a me, alla fine del libro, non è la paura dell’Iran o dell’Islam e ancor meno un incondizionato amore verso Israele.

Ciò che rimane a me, alla fine del libro, è l’entusiasmo di quel ragazzo.

L’entusiasmo e il dolore.

Il dolore che avrà sicuramente provato, il ragazzo con il mare negli occhi, quando il sogno iraniano si è realizzato nel peggior modo possibile e lui avrà dovuto, per forza, fare i conti con le macerie rimaste dal crollo dei suoi troppi sogni…

Elisabetta Caravati

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