Il 5 settembre del 2010 sette colpi di pistola spegnevano la vita di Angelo Vassallo. Ma non le speranze del Sud
Lo dice l’ancora giovane patriota protagonista del libro di Anna Banti sul Risorgimento italiano “Noi credevamo”, divenuto un film grazie al regista napoletano Mario Martone.
Le riprese sono state girate in gran parte nel territorio di Pollica, comune di cui Angelo Vassallo era Sindaco generoso e stimato. Le vicende di cui si parla – in parte ambientate anche in quelle zone del Meridione - si svolgono tra i moti del 1834 e i primi anni dopo la fondazione del nuovo Regno d’Italia.
Domenico (interpretato da Luigi Lo Cascio), nobile di famiglia cilentana, è affiliato alla Giovine Italia e crede nella repubblica. La sua fede ne rende stentati i colloqui con i compagni con cui condivide il carcere, poiché non accetta l’ipotesi di annessione allo Stato Sabaudo in cui sperano invece altri patrioti, stanchi di aspettare e convinti che non ci sarebbe stata un’altra occasione per l’Italia. Tra essi, ci sono galantuomini come Sigismondo di Castromediano, che dopo una parentesi da parlamentare del nuovo Regno d’Italia si ritirerà nelle sue terre in Puglia.
La convinzione anti-monarchica di Domenico è istintiva e profonda, come l’amarezza che ne accompagna ricordi e illusioni. Ha condiviso i primi passi con altri due giovanissimi compagni: un nobile – che si perderà nel suo delirio rivoluzionario – e un popolano, il più puro e indifeso.
Uscito dal carcere, ridotto in povertà (come la sua famiglia, a cui è stato requisito l’intero patrimonio), Domenico rimane fedele a quell’idea di Italia fino alla fine, fino al momento in cui non ci sarà più posto per l’ansia di giustizia e di rinnovamento e ogni ideale sarà soffocato: un corrotto Crispi (già consigliere di Giuseppe Mazzini) diverrà Presidente del Consiglio e lancerà l’Italia in un’assurda e sanguinosa avventura coloniale, in Etiopia.
Intanto il Sud cambia. Ma non in meglio: gli antichi commerci, il raffinato artigianato, il lavoro dei contadini … tutto viene travolto dalla guerra, dalla moltitudine in fuga e dalle lotte dei briganti, dalla durissima reazione dei piemontesi. La disperazione di quella terra ferita si fa urlo - attraverso Domenico - quando alcuni giovani disertori meridionali, intenzionati a raggiungere il generale Garibaldi per conquistare Roma, vengono fucilati per ordine di un altrettanto giovane ufficiale piemontese.
Il Meridione scompare
Il film è legato per sempre alla figura del Sindaco di Pollica e purtroppo alla sua tragica uccisione, avvenuta un anno fa, due giorni prima dell’avvio della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia; il 7 settembre ne era appunto attesa la presentazione, e avrebbe dovuto esserci anche Angelo Vassallo.
Quando le vicende non sono ambientate a Parigi - dove era esule la lucidissima principessa di Belgiojoso - o a Ginevra e a Londra, le riprese sono in gran parte girate tra le belle spiaggie del Cilento e la Calabria.
Eppure il nostro Sud è quasi scomparso dall’immaginario e dal tempo presente. L’informazione attuale contribuisce a distruggerlo. Sopravvive quando riesce ad essere una cornice sbiadita di vecchie e nuove alleanze, di fatti di cronaca e di sangue, di scheletri di fabbriche (attuali e future) e di ricchezze perdute. Oppure quando è trattato come uno strumento di miseri baratti.
Non c'è più attenzione (nè tensione) nel mettere a fuoco la lotta tra la libertà e il potere, tra la bellezza e la deturpazione, anche quella che nasce dal disincanto.
Il film “Noi credevamo” ha il merito di far passare attraverso il tempo storia e identità (e forse prospettive) del Meridione. Angelo Vassallo oramai è come dentro le storie e le immagini che sono state girate nella sua terra tre mesi prima dell’aggressione, in quella grande speranza di cambiamento e di giustizia, forte più dei mille ostacoli, delle mille intelligenze sbandate nel tormento della storia, speranza ogni volta nuovamente tradita dagli eventi.
Ma rinunciare a narrare il Sud - tutto intero - è un delitto. Le gravine pugliesi, i grandi letti aridi dei fiumi lucani, il carattere calabro, chiuso tra mare e montagne, la luce chiarissima del cielo laddove si intuiscono il mare e navi in arrivo sono il sistema arterioso che dà vita ad un’umanità impossibile da trovare altrove, ad una emozione per l’altro particolare.
Come in ogni altro posto, del resto. Ma il futuro non può che essere nel Sud, in quell’esperienza delle povere cose, degli oggetti che mancano, nel contrasto tra il nulla colorato di paglia e i grandi castelli normanni, nel desiderio di cambiamento che caratterizza tanta parte del mondo in cui ancora c’è l’intima idea che sia possibile farcela senza abbandonare gli umili al loro destino, senza provare avversione per la povertà e l’imperfezione. Non è contro questo che si deve combattere per migliorare il Meridione, che è pazienza, è inclusione, è dover fare i conti con tutto quanto senza cancellare nessuno. Neppure chi è lontano, dietro il mare.
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