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I testi coprono un arco temporale ampio, dal 1943 al 1984

Primo Levi: poesie d'amore e di amicizia

Proponiamo un percorso su Levi poeta, a partire da due poesie d’amore. La prima è un ricordo della donna che gli “stava nel cuore”, che condivise con lui la breve esperienza partigiana e il viaggio della deportazione, ma non fece ritorno da Auschwitz. La seconda è dedicata alla moglie.
7 gennaio 2022
Franca Sartoni

Primo Levi

Nel 1984 comparve, con il titolo “Ad ora incerta”, un volumetto edito da Garzanti che raccoglieva sessantatré poesie e dieci traduzioni libere (da Heine e da un anonimo scozzese del Seicento) di Primo Levi. I testi coprono un arco temporale ampio, dal 1943 al 1984; nelle edizioni successive troviamo “Altre poesie”, che vanno dal settembre 1984 al gennaio 1987, giungendo perciò fino all’ultimo anno di vita dell’autore. Egli è notissimo al “pubblico” in quanto grande scrittore in prosa e lucido testimone di Auschwitz, meno noto, in modo esteso, come poeta, fatta eccezione per i testi, famosi, che compaiono ad apertura dei primi romanzi.

Eppure….

"In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch’io, ad intervalli irregolari, 'ad ora incerta', ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato (…). Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale." (1)

           

Proponiamo perciò un percorso su Levi poeta, a partire da due poesie d’amore. La prima è un ricordo della donna che gli “stava nel cuore”, che condivise con lui la breve esperienza partigiana e il viaggio della deportazione, ma non fece ritorno da Auschwitz. La seconda è dedicata alla moglie; segue un bellissimo testo dedicato, alla fine della propria vita, agli amici.

 

25 febbraio 1944

 

Vorrei credere qualcosa oltre,

Oltre che morte ti ha disfatta.

Vorrei poter dire la forza

Con cui desiderammo allora,

Noi già sommersi,

Di potere ancora una volta insieme

Camminare liberi sotto il sole.

 

9 gennaio 1946

 

            Il 25 febbraio è la data dell’arrivo ad Auschwitz di Levi e dei suoi amici, tra cui una donna da lui amata, Vanda Maestro, che era stata partigiana nella stessa breve esperienza in Valle d’ Aosta ed era stata arrestata e poi deportata insieme a lui. Il convoglio era partito da Fossoli il 22 febbraio, come leggiamo in “Se questo è un uomo”, ed era arrivato il quarto giorno, il 25 appunto; fu l’ultimo giorno in cui Primo Levi, perciò, vide Vanda, quando le donne vennero brutalmente separate dagli uomini sulla banchina del treno. Anche Vanda entrò nel campo, ma morì nella selezione dell’ottobre 1944. Primo Levi lo apprese dopo la liberazione, e così racconta nel romanzo “La tregua”, alla fine del capitolo “Il campo grande”: “Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell’astigiano con la sua famiglia (…) parlava l’italiano perfettamente; per gratitudine e per temperamento, si era presto trovata amica delle italiane del campo, e più precisamente di quelle che erano state deportate con il mio convoglio. Mi raccontò la loro storia con gli occhi rivolti a terra, a lume di candela. (…) Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito. Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all’ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, solo cinque erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate.”

            Ed ecco l’incipit della poesia in memoria di Vanda: “Vorrei credere qualcosa oltre,/Oltre che morte ti ha disfatta…” Un “tu” che non viene nominato, dopo una data che non viene spiegata…Perché ciò non occorre, con le cose che bruciano ancora vive nel cuore. Ma se si decide di parlarne, il filtro letterario lo rende sopportabile, e anche più efficace, perché la fragilità della persona di Vanda (di cui scrive chi la conobbe) ben si sposa con la delicatezza di Pia de Tolomei nel canto V del Purgatorio dantesco: “’Deh, quando tu sarai tornato al mondo, /e riposato de la lunga via’,/ seguitò ‘l terzo spirito al secondo,/ ‘ricorditi di me, che son la Pia: /Siena mi fé, disfecemi Maremma…” (Purgatorio V, 130/134), riferimento che si incrocia con quello al canto III dell’Inferno:“…e dietro le venìa sì lunga tratta/ di gente, ch’i’ non avrei creduto/ che morte tanta n’avesse disfatta.” (Inferno III, 55-57). “Vorrei credere qualcosa oltre/Oltre la morte….”, e la ripetizione ribadisce il pensiero…E poi, potente si innalza l’anelito di riuscire a dire la forza del desiderio, in entrambi, di ritornare alla vita, alla libertà, alla luce del mondo: “di potere ancora una volta insieme/Camminare liberi sotto il sole”. “Sotto il sole”, per esprimere in questo sintagma di sapore biblico, che abbiamo già incontrato (anche se nel libro del Qoelet la vita umana viene rievocata spesso come fatica/dolore), la bellezza della vita; la forza di un desiderio che riusciva a persistere nella loro realtà di prigionieri votati alla morte e già “sommersi”. “Sommersi”: quante volte ritorna questo termine (anch’esso dantesco, vedi Inferno VI, 15 e Inferno XX, 3) nell’opera di Levi, fino a comparire in un capitolo di “Se questo è un uomo” e nel titolo dell’ importantissimo libro saggistico “I sommersi e i salvati”…    I sommersi sono coloro che non ce la fanno, che soccombono, e qui il poeta si colloca tra loro… (Anche l’ espressione “i salvati” è un dantismo, la troviamo in Inferno IV, 63).  Ma l’ultima parola della poesia è il sole, il desiderio della vita, e il lessico diretto ma alto sottolinea la nobiltà di questo desiderio.

            In questa poesia non vi è più una metrica regolare, classica, che Levi da questo punto in poi per lo più abbandona a favore di altre strutture ritmiche; qui il ritmo è dato dal parallelismo “Vorrei credere…/Vorrei poter dire” e dalla ripresa (anadiplosi) della parola “oltre”. Levi in nota cita anche, insieme ai riferimenti danteschi di cui ho parlato, un verso di Eliot da “The Waste  Land”: “I had not thought death had undone so many” :“Ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta” (l’autore inglese qui parla della folla), che a sua volta è una ripresa del canto III dell’Inferno.  

 

            11 febbraio 1946 é una grande poesia d’amore alla moglie, che Levi sposerà l’anno dopo e a cui è dedicata tutta la raccolta “Ad ora incerta”, che si apre con le parole A Lucia.   

 

11 febbraio 1946

Cercavo te nelle stelle

Quando le interrogavo bambino.

Ho chiesto te alle montagne,

Ma non mi diedero che poche volte

Solitudine e breve pace.

Perché mancavi, nelle lunghe sere

Meditai la bestemmia insensata

Che il mondo era uno sbaglio di Dio,

Io uno sbaglio nel mondo.

E quando, davanti alla morte,

Ho gridato di no da ogni fibra,

Che non avevo ancora finito,

Che troppo ancora dovevo fare,

Era perché mi stavi davanti,

Tu con me accanto, come oggi avviene,

Un uomo una donna sotto il sole.

Sono tornato perché c’eri tu.

11 febbraio 1946

            Come accade tante volte nella letteratura, il rapporto con una donna è specchio dell’anima e della ricerca del senso delle cose. Lucia è luce, e Primo scrive che la cercava fra le stelle da bambino; il poeta chiedeva lei alle montagne, da cui riceveva breve pace. Per il fatto che lei mancava, Primo meditò la “bestemmia insensata” della negazione del mondo e della propria vita. Poiché lei c’era, ebbe la forza di gridare con ogni fibra dell’essere il proprio no alla morte. Misteriosamente, la donna gli stava davanti e accanto, “come oggi avviene”, “un uomo e una donna sotto il sole”, tanto da poter affermare “Sono tornato perché c’eri tu”. Troviamo dunque di nuovo la bellissima espressione “sotto il sole”, come in 25 febbraio 1944, ma in questo caso non si tratta di un desiderio spezzato dalla sventura, ma di una sicura realtà.

            Lucia Morpurgo apparteneva ad una famiglia ebraica piemontese come Primo Levi e i due si conoscevano fin dall’ adolescenza. Fu però al ritorno da Auschwitz che questa persona risultò fondamentale per lo scrittore; fu la presenza intelligente, sensibile e amorevole di Lucia, sposata nel 1947, a dargli infatti la forza di affrontare il trauma subito. Mi viene in mente la bellissima lirica “Il sogno del prigioniero” ne “La Bufera” di Montale, in cui la voce narrante, dopo aver descritto la crudezza della situazione, si rivolge a un tu che trasfigura le cose. Il testo è diverso da quello di Levi, anche sul piano narrativo, ma ci presenta, anche se in altro modo, la forza della presenza, appunto, di un tu. Montale descrive per metafora un mondo di torture e di detenzione entro il quale si rende presente, spiritualmente, qualcuno, la sua amata, che però non viene nominata:

(…)

crac di noci schiacciate, un oleoso

sfrigolio dalle cave, girarrosti 

veri o supposti - ma la paglia è oro,

la lanterna vinosa è focolare

se dormendo mi credo ai tuoi piedi. (versi 6-10)

 

e conclude:

 

(…)               L'attesa è lunga,

il mio sogno di te non è finito.

 

            Tornando al testo di Levi, possiamo notare che non vi è una metrica regolare, ma sono presenti alcuni versi endecasillabi (vv.6 e 15), mentre diversi sono della stessa misura, decasillabi. Non troviamo rime, ma nei versi 8 e 9 vengono ripetute le parole chiave “mondo” e “sbaglio”, e l’autore costruisce una sorta di struttura a chiasmo (“Il mondo era uno sbaglio di Dio”/”io uno sbaglio nel mondo”), che rafforza il significato. Presenti i parallelismi, tipici dello stile di Levi, aperti dal “che” (“che il mondo era uno sbaglio di Dio” al verso 8, “che non avevo ancora finito” al verso 12 e “che troppo ancora dovevo fare” al verso 13).

            La sintassi piana e il lessico medio-alto suggeriscono un tono pacato e riflessivo; bellissimi l’incipit e il verso con cui chiude la poesia.

 

            Tra le ultime poesie di Primo Levi possiamo leggere questo stupendo congedo, dedicato agli amici:

           Agli amici

Cari amici, qui dico amici

Nel senso vasto della parola:

Moglie, sorella, sodali, parenti,

Compagne e compagni di scuola,

Persone viste una volta sola

O praticate per tutta la vita:

Purché fra noi, per almeno un momento,

Sia stato teso un segmento,

Una corda ben definita.

 

Dico per voi, compagni d'un cammino

Folto, non privo di fatica,

E per voi pure, che avete perduto

L'anima, l'animo, la voglia di vita.

O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu

Che mi leggi: ricorda il tempo

Prima che s'indurisse la cera,

Quando ognuno era come un sigillo.

Di noi ciascuno reca l'impronta

Dell'amico incontrato per via;

In ognuno la traccia di ognuno.

Per il bene od il male

In saggezza o in follia

Ognuno stampato da ognuno.

Ora che il tempo urge da presso,

Che le imprese sono finite,

A voi tutti l'augurio sommesso

Che l'autunno sia lungo e mite.

 

16 dicembre 1985

 

            Questa poesia venne inviata personalmente da Levi agli amici più cari, fra cui la scrittrice Gina Lagorio che ne parla con affettuosa nostalgia in questo modo: “ Per me sono queste le ultime parole di Primo Levi: un saluto natalizio di amicizia dove trema un mai dimenticato dolore, eppure spira l’umana brezza di una speranza negli uomini che sulle ‘tracce’ della fraternità nel comune destino debbono comunque continuare a procedere, ‘ognuno stampato da ognuno’. E se quell’ognuno si chiamava Primo Levi, con una impronta che il tempo non potrà cancellare” (2).           Osserviamo il testo: il termine amici viene subito esteso a comprendere i familiari, i compagni di scuola…, “persone viste una volta sola/ O praticate per tutta la vita”: tutti sono compresi, anzi, “ognuno”, e questa parola-chiave viene più volte ripetuta, anche in posizione forte alla fine dei versi. Tutti, ognuno, purché vi sia stato, anche solo per un momento, un legame, che Levi definisce “segmento”, “corda”, un legame che si crea, anzi, si tende. Nel testo parla un “io” che coincide con la persona dell’autore e si rivolge, come sempre, a un “noi”, a noi. Un “noi” non indifferenziato, ma dettagliato, come abbiamo visto, fin dall’inizio e ribadito, dopo uno stacco: “Dico per voi”. Si rivolge ad amici e compagni di cammino, ma anche a coloro che possono aver perduto “l’anima, o l’animo, o la voglia di vita” e, per concentrazione progressiva dello sguardo (un procedimento che abbiamo incontrato anche nella poesia “Nel principio”, in cui si passa dai “mille e mille soli” a “questa mano che scrive”), “ o nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu/ Che mi leggi”(e questo enjambement mette in forte rilievo il “tu”). Che cosa vuol dirci Levi?

            “Ricorda il tempo/Prima che…” (e qui si può avvertire un’ eco dal libro del Qoélet, già colta in Attesa:  Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che, Qoelet 12, cit.). “Ricorda il tempo” della giovinezza “quando ognuno era come un sigillo”, cioè cera molle, non ancora indurita, pronta a ricevere l’impronta “dell’amico incontrato per via; /In ognuno la traccia di ognuno”, in senso positivo o negativo, “Ognuno stampato da ognuno” (bellissimo). Il segmento teso, la corda, metafore dell’essere in relazione, diventano qui un sigillo interiore. E infine, dopo questo “inno” alla comunione umana torna, per collocarsi in primo piano, la realtà del tempo, già accennata nelle parole “Quando ognuno era…”. Ora “il tempo urge da presso” e “le imprese sono finite”. Ora è giunto l’autunno della vita, ed il poeta rivolge a tutti quelli che ha incontrato nel suo cammino, che fu “folto”, come ha scritto, e “non privo di fatica”, “l’augurio sommesso” che questo tramonto della vita “sia lungo e mite”.

            Pur in assenza di uno schema metrico fisso, vi sono, contrariamente a quanto accade nella maggior parte delle poesie di Levi, ben dieci versi endecasillabi, o riconducibili all’endecasillabo, (ad esempio se si pronunciano in modo scandito e rinunciando alle elisioni) : versi 1, 3, 5, 6, 7, 10, 12, 17, 19, 20. Al verso endecasillabo 20, inoltre, seguono due settenari, con un modulo da canzone libera.

            Il ritmo è scandito dalla ripetizione (soprattutto di “ognuno”) e dalle variazioni. E’ sorprendentemente ricca di rime questa poesia, coerentemente con il tono commosso della rievocazione dell’amicizia: versi 2, 4, 5 “parola”/”scuola”/”sola”; versi 6, 9, 13 “vita”/”definita”/”vita”; versi 7, 8 “momento”/”segmento”; versi 19, 22 “via”/”follia”. I versi dal 24 al 27 sono tutti a rime alterne, a sottolineare la commozione dell’augurio: “presso”/finite”/sommesso”/”mite”. Non mancano neppure le assonanze: “definita”, “vita”.

            Un aspetto che colpisce è anche quello della precisione analitica con cui Levi svolge la sua elencazione di possibilità (e questo è anche il suo atteggiamento quando parla nelle interviste, con una precisione che definirei “etica” nel considerare con onestà intellettuale i diversi lati delle questioni che gli vengono proposte). Per quando riguarda il lessico, la ripetizione, che ho già sottolineata, di “ognuno” crea come una tessitura: “Amici”, “parola”, parenti”, “ scuola”, “ Compagne e compagni”, “anima”… sono le parole semplici e universali che indicano ciò che fa bella la vita umana. “Segmento”, “corda”; cera”, “sigillo”, “impronta”, “stampato”, dicono, come notavo, i legami e l’impronta che ognuno dà e riceve. Non manca un cenno all’ambivalenza della esistenza ( “Per il bene od il male”, “In saggezza o in follia”), ma in modo leggero.

            Non vi è una ammonizione a chiudere il testo, ma un “pianissimo” delicato in cui la voce quasi si spegne.

            E’ un congedo sereno, pur nella coscienza (presente in altre poesie dell’ultimo periodo) che il tempo sta per finire: il suo, dell’io che parla, perché agli amici invece augura un “autunno” “lungo e mite”.

Franca Sartoni

Note: (1) Tratto da  Primo Levi, Prefazione al suo libro di poesie Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 1984.

(2) Gina Lagorio Rileggere Primo Levi ad ora incerta, su “Quadernos de Filologia italiana”, 2002.

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