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Nessun potere è stato in grado di mettere a tacere la sua disperata vitalità

A cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini

Scrive Enzo Golino: “Sul vuoto che Pasolini ha lasciato permane la difficoltà di cancellarne l’ombra, e più si tenta di cancellarla e più si proietta nella realtà che stiamo vivendo”. Rimane più che mai attuale la sia critica del potere e dell'omologazione della nuova società neocapitalistica.
14 gennaio 2022
Dale Zaccaria

 PIER PAOLO PASOLINI E LA PERVERSIONE DI OGNI POTERE

  

“Sul vuoto che Pasolini ha lasciato permane la difficoltà di cancellarne l’ombra, e più si tenta di cancellarla e più si proietta nella realtà che stiamo vivendo”. Enzo Golino

Itinerari Pasoliniani. La dissoluzione dei corpi.

 

Pasolini

L’omicidio di Pasolini segna i territori delle debolezze collettive, divenendo egli vittima sacrificale del cannibalismo dei linguaggi giornalistici e neo-televisivi; l’evento luttuoso viene esteriorizzato, tolto dalla sua aura intima e dolorosa dagli apparati comunicazionali e della cultura di massa.
Lo stesso corpo martorizzato assunto ad icona dell’inconscio collettivo rappresenta i rischi della modernità: la dissoluzione dei corpi, mutazione e disgregazione sociale.
Pasolini nel suo ultimo atto vive e fa vivere paradossalmente la crisi, l’atonia di una destorificazione dell’individuo dove la stessa morte è spettacolarizzata.
Il pensiero postmoderno francese con Baudrillard, sottolinea come la logica della rappresentazione diventi prioritaria rispetto all’oggetto rappresentato: “Non l’estasi della comunicazione dove tutto è sottoposto all’estroversione forzata di ogni interiorità e all’introiezione forzata di ogni esteriorità.”

A difendere il dolore dello scrittore che affermava “sento la mia tensione verso un mondo che io rifiuto, che non ha ragione” interverrà l’urlo di Moravia a Campo dei Fiori: “Il poeta dovrebbe essere sacro.”
Nel saggio Empirismo Eretico, l’autore si dibatte, nella prima parte sulla storia dei rapporti dello scrittore italiano con la lingua media, constatando le problematiche inerenti ad essa: la non esistenza di una lingua nazionale o “imperfettamente nazionale.”

La koinè come entità dualistica, italiano letterario e italiano strumentale, il tutto intessuto in un modello borghese o piccolo borghese a cui soprattutto la letteratura alta e media s’intreccia All’orizzonte intanto “ si profila la lingua del futuro(…) quella voluta dai tecnocrati, dai neocapitalisti (…).”

Così il linguaggio giornalistico, anticreativo, che si deve completamente adeguare alla richiesta di massa, ritagliando dalla grammatica italiana solo gli elementi che concernono la comunicazione. O quello politico, segno evidente dell’omologazione della nuova società neocapitalistica.

La cultura tecnocratica-tecnologica si accinge ad espropriare afferma il poeta “tutto il passato classico e classicistico dell’uomo: ossia l’umanesimo.” Pasolini testimonia con il proprio corpo questo passaggio epocale fino a giungere a quel livellamento linguistico dovuto alla diffusione dei mezzi mass-mediali (radio, televisione).

Come annota Andrea Miconi “ relativamente precoce è dunque in Pasolini, la coscienza del ribaltamento globale delle culture, degli investimenti estetici ed effettivi e dei modi dell’esperienza vissuta, della de-erotizzazione dell’agire creativo e della meccanizzazione dei modi e delle tecniche di espressione.” Stiamo assistendo alla formazione di un nuovo regime antropologico, una nuova cultura che sopprime quella popolare con istanze consumistiche e di mercificazione.

La polemica dell’eretico antimoderno contro l’influenza e la manipolazione sociale dei mezzi di comunicazione di massa, la mercificazione estetica da essi compiuta e avvertita come l’erosione auratica dell’opera d’arte, la desacralizzazione dell’immagine ormai fruita quotidianamente, passivamente dallo spettatore non è più epifania delle radici mitiche dell’espressione. Quest’ultima sarà riscattata nell’innesto compiuto da Pasolini tra il dialetto romano e il suo italiano letterario, dove la lingua della borgata diviene il territorio di una “naturalità espressiva” come afferma De Benedectis, inscritta nei corpi e nei luoghi dei propri parlanti.

Esprimersi è esistere.

Pasolini è un infaticato sperimentatori di linguaggi. Egli può esistere solo esprimendosi, così la scrittura, così anche il cinema, sono i mezzi con i quali egli può liberarsi da questa ossessione, ma al contempo gli strumenti necessari per recuperare quel mondo primigenio ed innocente.

Tullio De Mauro in un suo saggio “Pasolini critico dei linguaggi” ripercorre questa iniziazione. Il poeta è legato essenzialmente ad un’ ambiente in cui si esprime l’altarità dialettale, da un lato della madre friulana e dall’altro del padre romagnolo, a fare da traid d’union a queste componenti eterogenee sarà l’obbligo d’apertura ad una strada verso l’italofonia. La figura paterna è legata a quel complesso edipico analizzato e superato nel film del 1967 Edipo Re, dove in un primo tempo il regista riscrive la tragedia sofoclea in chiave autobiografica, cercando il superamento necessario a questa condizione. Scrive Pasolini: “questo è ciò che Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza e l’obbligo di sapere. Non tanto la crudeltà della vita che determina i crimini quanto il fatto che la gente che non tenta di comprendere la storia, la vita, la realtà.”

Tra feticci metropolitani e la disgregazione di un unitario passato.

 

L’arrivo di Pasolini a Roma è dettato più che da una scelta personale, dagl’eventi traumatici che si susseguirono nella vita del poeta: leggiamo nel saggio di Andrea Miconi, PPP, la poesia, il corpo e il linguaggio: “A Roma era approdato rocambolescamente nel dicembre del 1949, al termine da una vera fuga da Casarsa, in Friuli, il paesino della famiglia materna, dove egli viveva e lavorava. La fuga, un trasloco organizzato in fretta e furia con la madre Susanna Colussi, seguiva di un paio di mesi la prima traversa giudiziaria subita dal poeta: un processo per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne che gli aveva fruttato l’espulsione dal PCI per “indegnità morale e politica” e il licenziamento dalla scuola media di Valvasone dove Pasolini insegnava italiano, e dove pare fosse avvenuto il fatto.”

L’incontro con Roma e soprattutto con la borgata corrisponde in Pasolini alla scoperta di nuovi linguaggi e di forme espressive alternative, dal romanzo al cinema; ma segna anche il passaggio dal modello Pascoliano assunto nel periodo friulano a un “linguaggio più spettacolare”.
Se nel processo letterario pasoliniano era già inscritto l’evento cinematografico esso diventa anche il modo di confrontarsi con un mondo che conosceva solo lateralmente e che gli permette così di riformulare il proprio ruolo d’intellettuale.

Come afferma lo studioso Serafino Murri “confrontarsi con l’immediatezza di uno degli allori principali mezzi di comunicazione di massa, molto meno “aulico” e gravato dai cliché borghese della solipsistica inaccessibilità alle masse dell’espressione letteraria, significava, in qualche modo “scendere in campo”. Utilizzare quello che negl’ anni Sessanta era il mezzo di comunicazione dell’etica borghese per eccellenza significava accettare la sfida aperta da quella cultura.”

Certo Pasolini non era “un perfetto uomo di cinema”, le sue immagini non erano strutturate sulla maniacalità tecnica, erano spesso “sgrammaticate” e la logica della loro costruzione era più poetica che strettamente cinematografica. De Benedictis sintetizza l’immagine (cinematografica) pasoliniana in un termine “feticistica”, poiché l’autore preferisce spezzare l’andamento del film in inquadrature nette e distinte. Proponendo la sua teoria di un linguaggio cinematografico della vita, o meglio, della vita come cinema in “natura”.

Le prime esperienze cinematografiche di Accattone e Mamma Roma si formano “sulle dilatazioni di una poetica ancora sospesa tra la dimensione artigianale e locale dell’esperienza creativa e quella istituzionale della produzione della cultura di massa.” (cfr. Miconi)

Il cinema di Pier Paolo Pasolini consacrato da una vocazione regressiva non può che determinarsi in una frattura drammatica e lacerante, nell’annullamento individuale, nel decadimento di corpi e dell’esperienza sociale. Le inquadrature che isolano feticisticamente la realtà esprimono il transito di luoghi, oggetti, corpi, da un prima ad un dopo, ma anche il passaggio dello stesso autore, da una adesione passionale al rigetto furioso e indignato della realtà.

La conclusione sarà la distruzione dell’oggetto e l’autodistruzione dell’autore stesso: Salò o le centoventi giornate di Sodoma.

Dietro questo film sembra disgregarsi il tempo storico, il passaggio epocale dei corpi, “umiliati e distrutti”. Metafora il film della decadenza del regime fascista e della repubblica di Salò simbolo per Pasolini di quella perversione – che trae il suo leitmotiv da De Sade- perversione che come afferma il poeta è già inscritta nella società attuale e che vede ovunque (1): trattandosi appunto di quel gioco perverso che compie il Potere nella mercificazione, manipolazione e distruzione dei corpi e quindi dell’individuo. E tutto questo non può che riflettersi nell’allegoria pregnante della dissoluzione-disintegrazione dell’uomo nella modernità, dell’antico sapere nei circuiti o meglio corto-circuiti della cultura massmediale, afferma Pasolini:” Il sesso in Salò è una rappresentazione o metafora di questa situazione, questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c'è in Salò (e ce n'è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell'uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. “

 

Pier Paolo Pasolini e la perversione di ogni potere

 

Il Maestro Pasolini con lucidità e lungimiranza attraverso le 120 di Salò parla del nostro tempo. Di una società dove sempre piu’ spesso il sesso è perverso e brutto, dove la stessa perversione si declina in violenza sessuale e umana,  dove le vite e i corpi vengono umiliati, oggettivizzati e mercificati, dove nello spazio capitalistico ognuno di noi è merce vendibile, comprabile, da consumare e buttare via. L’assenza di amore, e soprattutto di poesia in questa ultima opera Pasoliniana non fa che segnare la rottura dello scrittore con qualsiasi speranza per un mondo futuro diverso e migliore, lui che considera questa parola oramai cancellata dal suo vocabolario, lui che non può che vedere e predire “un mondo pieno di dolore”.  Questa la grande lezione che Pasolini ci ha lasciato sulla nostra attuale società contemporanea, non solo con il suo ultimo film, ma con tutta la sua vita, la sua opera, con tutta la sua disperata vitalità che nessun potere per quanto distruttivo e perverso potrà mettere mai a tacere. 

 

 

Note

1) Rispetto al suo ultimo lavoro cinematografico Salò o le 120 giornate di Sodoma, Pasolini afferma in una nota a questo lavoro “vedo perversione ovunque” in Salò o le 120 giornate di Sodoma versione dvd I grandi successi del cinema Italiano in contenuti.

 

Riferimenti Bibliografici

Tullio De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in P.P. Pasolini, a cura di R. Tordi, «Galleria», XXXV (1985), 1-4, 7-20.
Maurizio De Benedectis, Fellini e Pasolini linguaggi dell’aldilà, Edizioni Lithos.
Andrea Miconi, P.P. Pasolini, la poesia, il corpo ed il linguaggio, Edizioni Costa e Nolan.
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, edizioni Castoro.

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