Fare poesia dopo Auschwitz
PRIMO LEVI: FARE POESIA DOPO AUSCHWITZ
E’ famosa l’affermazione di Adorno del 1949: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico”: secondo un primo significato, ciò indica che dopo Auschwitz è impossibile, o ingiusto, fare poesia. Il termine “barbarico”, però, potrebbe anche significare “irrazionale”: quanto è accaduto chiederebbe al poeta di “ ricollocarsi entro uno stato percettivo e cognitivo tutto straniero e anteriore rispetto a quello della cultura occidentale, fondata sui principi (…) della razionalizzazione”.
Continuando il nostro percorso all’interno delle poesie di Primo Levi, proponiamo l’approfondimento di suoi testi molto noti, che vale sempre la pena di ricordare come testimonianza della Shoà.
Shemà
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
Allegati
Primo Levi: fare poesia dopo l'Olocausto
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