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CARTA

Scripta volant, un secolo in polvere

Vecchiaia e incuria uccidono i libri. L'aspettativa di vita di un volume contemporaneo dipende dal materiale con cui è stato fatto. Un materiale, oggi, sempre più povero
Dei due milioni di volumi della Biblioteca Nazionale di Parigi, la metà è a rischio, denunciava Carlo Fruttero. Ma la realtà è ben peggiore. Si possono fare le ristampe, certo, ma chi decide cosa va salvato e cosa no, chi promuove un libro a «classico»? In Italia, la maggior parte delle case editrici sceglie di risparmiare sulla carta, dunque di uccidere gran parte della sua stessa produzione
6 gennaio 2005
Errico Buonanno
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Poco più di un anno fa, la Biblioteca Nazionale di Parigi lanciò ai giornali il suo curioso e preoccupato allarme: dei due milioni di volumi lì raccolti, quasi metà erano a rischio, a breve termine, di completo e irreparabile disfacimento. Non per incuria: per vecchiaia. Non i più antichi: quelli stampati in carta acida da fine Ottocento in poi. Ciò che Carlo Fruttero, raccontando l'episodio su La Stampa, sembrava - buon per lui - ignorare, era che quei volumi centenari potevano anche dirsi fortunati, che si poteva ringraziare la buona cura dei mastri cartai del tempo giacché, con tutta probabilità, verso il 2100 l'intera produzione libraria di oggigiorno sarà completamente sbriciolata. È un paradosso: come notava già Pérez-Reverte, i nostri pronipoti, sì, potranno ancora leggere i codici medioevali, la cartapecora, la carta fatta con gli stracci intorno al 1500; avranno ancora un manoscritto autografo del Boccaccio ma non terranno che pochi frammenti fragili di quell'immane produzione di romanzi che segna questi nostri tempi. Il libro di oggi, il libro che gelosamente noi lettori spolveriamo sulla mensola, ha vita breve quanto quella di un uomo. Il libro, il libro al quale noi, scrittori giovani e di molto presuntuosi, affidiamo l'immortalità e le nostre smanie, dura, di media, settant'anni.

Aspettative di vita cartacea

Dati approssimativi, è chiaro. Conta, fino ad un certo punto, la conservazione, conta la qualità del materiale. Delle carte Usomano, le più comuni tra quelle destinate a stampa «solo testo» - senza patinatura, per intenderci - esistono diverse gamme, ognuna con la propria longevità o «aspettativa di vita», ognuna con la propria resistenza a quell'ingiallimento che, prima o poi, le renderà del tutto e irrimediabilmente rigide, sottili, friabili, pronte a tornare polvere alla polvere in qualche scantinato vasto delle inutili biblioteche del futuro.

La cellulosa, per fare un esempio, è pasta lignea lavorata: è resistente, è un po' più chiara, è bella al tatto. Ha il gran difetto di essere trasparente, e ciò significa che, per ottenere un foglio, bisogna utilizzarne molta, costruire un libro di elevata grammatura, pesantissimo e dunque, e soprattutto, più costoso. Questo è il motivo per cui molti editori, in genere, preferiscono carte più dozzinali, in cui alla cellulosa è mescolata, in percentuali variabili, la pasta lignea grezza: economica, leggera nonché, ahinoi, rapidissima a ossidarsi. Potremmo valutare la resistenza di un volume soppesandolo, esaminandone il colore più o meno grigetto e stabilire a prima vista quale raggiungerà i novanta, quale si spegnerà a cinquanta, a sessant'anni, in questa vana lotta per qualche decennio in più di vita. Potremmo, un po' per gioco, immaginare quali dei tanti testi attuali faranno ancora in tempo a essere letti almeno dai nostri nipoti, quale sarà l'immagine della nostra cultura che potrà essere più a lungo tramandata.

Poche speranze per i libri leggerissimi e in carta ruvida della Baldini Castoldi & Dalai e per i Guanda, per i Rizzoli, la Bompiani, la Marsilio. Tra mezzo secolo, così, non resterà più traccia alcuna delle edizioni originali di Faletti (una montagna di truciolato tra le più ingombranti), della Tamaro, della brava Mazzucco. Niente Fallaci, con le sue energiche invettive sul mondo dei nonni, niente Baricco, con la sua prosa-poesia eterna. Non reggerà la Feltrinelli con le sue pagine gialline, né la E/O; niente Starnone, dunque, a deliziare i posteri, né Stefano Benni. Più vita avranno - forse - i bei Sellerio, gli scattanti Minimum Fax; un pochino probabilmente i Mondadori (non quelli economici), certo le belle cellulose Einaudi, così che, scomparso nel nulla Umberto Eco, ci si dovrà studiare il secondo Novecento su Aldo Busi e Andrea De Carlo. Che cosa si potrà capire di Michele Mari, quando l'intera collezione Urania sarà persa? Tutto ciò, almeno, fino all'inevitabile macero generale del Tempo, venti o trent'anni dopo i primi.

È senza dubbio, scherzi a parte, un panorama scoraggiante. Il tentativo di salvare il nostro patrimonio letterario in cd rom è assolutamente futile: i compact disc hanno esistenza media intorno ai quindici anni, e questo sta a significare anche che la gloriosa società presente rischia tra l'altro di veder svanire tutta la musica, i programmi, tutta la propria cinematografia su fragile pellicola e dvd. Senza contare la rovinosa usura delle immagini, senza contare i graffi sopra ai negativi; già oggi, a soli trenta o quarant'anni di distanza, ogni opera girata in Technicolor sta subendo un inquietante e quasi tragico fenomeno: si sta scolorendo, tanto che molte azioni di recupero e restauro hanno bisogno di essere svolte urgentemente. Non resistono i nastri magnetici, non resistono le memorie dei computer. Si rischierebbe, se fosse così, di lasciare al futuro un bagaglio vuoto, l'immagine di un'era completamente priva di espressioni artistiche. Pensando poi alla misera carta dei quotidiani, ci renderemo conto delle serie difficoltà che avrebbero le epoche a venire per ricostruire, molto più in generale, la nostra Storia, comprendere le nostre istituzioni, il nostro mondo. Un buco, un secolo che, più che assomigliare a un nuovo medioevo, riporta in mente tante chiacchiere ufologiche su avanzatissime civiltà antiche d'un tratto scomparse nel nulla: grazie alla sua ricchezza tecnica, civile ed economica, la famigerata società dei consumi rischierebbe appunto di consumarsi per lasciar solo tracce mute come idoli ambigui e incomprensibili sull'Isola di Pasqua. E senza voce del passato, privata di testimonianze, quale potrebbe essere il destino dell'epoca futura, quale strana cultura potrebbe essere elaborata nel 2100, quando gli unici modelli disponibili fossero quelli degli incunaboli più antichi?

La ristampa dei classici

Questo scenario è un'evidente iperbole. La soluzione chiaramente c'è: senza aspettare nuovi ritrovati tecnici, c'è la copia. I grandi classici di oggi potranno esser ristampati e, se le tante e troppe opere minori contemporanee andranno perse, sarà soltanto la versione estetica della più naturale selezione darwiniana. Certo.

Il fatto è che parlare di classici vuol già dire esprimere un giudizio che prende in considerazione un elemento di estensione temporale, un fattore di durata inconciliabile con questa generale usura rapida. Notoriamente, non esiste alcuna coincidenza sicura tra l'idea di classico e quella di best-seller, tra l'opera che resta e quella che si crede sul momento degna di restare: nell'epoca in cui Federigo Tozzi e Italo Svevo erano per lo più ignorati, le classifiche di vendita erano dominate dai Da Verona e Pitigrilli; mentre il Petrarca riteneva il proprio Canzoniere un'opera minore, era convinto di essere ricordato per il ben più impegnativo, e oggi dimenticato, Africa. Cosa sarebbe successo, allora, se si avesse avuto la necessità di scegliere quali testi far passate alla Storia e quali invece gettar via per sempre? Quali danni irreparabili, se ci si fosse ritrovati nella condizione in cui noi ci troviamo adesso?

Riscoperta addio

La riscoperta, il ritrovamento di libri dimenticati ha avuto, almeno dall'Umanesimo in avanti, un'importanza decisiva per la letteratura. È una possibilità che invece non avremo più o che, almeno, dovremo svolgere in un arco di tempo molto più limitato. Vivere, a partire dalle annotazioni di Baudelaire su Il pittore della vita moderna - dal tempo della carta acida -, nell'epoca della moda, significa assistere a successi di massa tanto clamorosi quanto transitori. Il classico, al contrario, è esattamente quell'opera d'arte che al movimento del transitorio si oppone, che al di là della contingenza storica trova l'eterno (e anzi, nel nostro immaginario collettivo lo stereotipo del «genio incompreso» dai contemporanei è quasi sinonimo dell'artista puro). L'usura rapida ci priva invece di quel banco di prova fondamentale, della resistenza di un romanzo oltre il grande successo iniziale che, come uno sguardo più distante e più obbiettivo sulle cose del mondo presente in cui siamo ancora troppo coinvolti, ci permette di giudicare con qualche certezza l'autentico capolavoro.

Siamo sicuri che, tra uno o due secoli, la Mazzantini - certo una grande professionista dello scrivere - potrà essere considerata la nostra Manzoni? Eppure, come prendersi la responsabilità di gettarla via, di gettar via Ken Follett, per favorire un altro autore sfortunato sperando che, tra cento anni, scatti la sua rivalutazione?

Stiamo sereni, ché tutto vola, anche le scripta. I nostri pronipoti non avranno la nostra grande letteratura; avranno i fenomeni di mercato, avranno l'idea di quel po' d'arte povera che può talvolta trovar spazio nei ricchi prodotti di massa. E in questo senso, allora sì, avranno un'immagine abbastanza veritiera di quel che furono le nostre traboccanti librerie ridotte in polvere.

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