Ito, l’ideologo ‘commonista’ che difende la libertà del web

Passa la metà del suo tempo in un villagio vicino Tokyo e l'altra metà in giro per il mondo a diffondere il concetto che la rete va difesa dai tanti attacchi che provengono dai potenti di ogni latitudine
21 marzo 2005
Renata Fontanelli
Fonte: Affari e Finanza

Il passato è sicuramente quello di un ragazzo vivace, uno che sin da piccolo ha avuto idee brillanti e molta curiosità. Tutto ciò traspare dagli occhi vispi, dalla parlata sciolta e inarrestabile in perfetto americano e dal sorriso gentile, anche di fronte alle faccende più scomode. Le idee di Joi Ito, figura ibrida tra manager, filosofo, divulgatore di pensiero, insegnante e guru, possono non essere condivise, ma sono molto chiare: Internet è nato come terreno di libertà, ma col tempo questa libertà è sempre più minacciata. Sta a noi difenderla dai nemici, in particolare dagli americani, «o meglio dal signor Bush», dalle compagnie telefoniche, da Hollywood e dalla televisione. Per loro la rete è diventata una minaccia al profitto e quindi va azzittita. Joi Ito ha trentotto anni, vive in un piccolo villaggio in Giappone ma viaggia continuamente. La settimana scorsa era in Italia: «Un bel paese – dice – anche se ho l’impressione che manchi il concetto di legge, che ci sia una sorta di pensiero comune secondo il quale trasgredire è piuttosto normale, e anche la legge stessa è qualcosa di secondario e variabile a seconda del vento che tira». Quando aveva tre anni la sua famiglia si è trasferita da Kyoto negli States, dove il giovane Ito ha trascorso infanzia e adolescenza. Testa brillante, troppo brillante per stare alle regole: «Mi sono iscritto in varie università, ma sono stato cacciato da tutte». Alla base una forte passione per tutto ciò che in qualche modo ha a che fare con l’arte, la cultura, la musica ed il cinema. Il primo lavoro "serio" lo trova ad una consolle come disc jockey, ma l’attrazione fatale è verso il computer: «Ad un certo punto mi sono reso conto che avere una laurea era superfluo e ho iniziato a studiare informatica. Ho capito che la rete era qualcosa di estremamente affascinante, un’opportunità unica di divulgazione del pensiero e della parola, un terreno di pura democrazia». Ito torna quindi in Giappone e nel 2000 fonda Neoteny, società di venture capital quotata in borsa per 20 milioni di dollari. E’ uno dei fondatori di Creative Commons, l’organizzazione creata da Lawrence Lessig che ridefinisce la concezione di diritto di proprietà intellettuale nell’era digitale, uno dei punti di riferimento del dibattito mondiale sul copyright. Tra le sue passioni c’è l’antropologia ed è uno degli esperti mondiali sul tema delle conseguenze sociologiche e antropologiche della cultura dei cellulari. Ha centinaia di proseliti in tutto il mondo.
Innanzitutto lei come si definisce? Divulga la cultura della democrazia e della condivisione, ma in realtà vive comprando partecipazioni e investendo in società?
«Sono un capitalista, e prima della ‘bolla’ ho anche fatto parecchi soldi. Diciamo che metà della mia vita la dedico ad aiutare le società che operano in Internet con investimenti, e l’altra metà del tempo la trascorro lavorando sul blog, facendo conferenze, cercando di salvare la democrazia di Internet con attività no profit. Non sono comunista, sono commonista».
Cos’è cambiato in Internet, da quando esiste?
«Lo spirito originario, quello per cui è nato era quello di consentire a piccole compagnie la condivisione di conoscenze. La ‘bolla’ è scoppiata quando tutti hanno iniziato a cercare il monopolio. Adesso il mio obiettivo è di cambiare e rivoluzionare il concetto di diritto d’autore. Internet deve tornare ad essere una chiave di apertura verso la democrazia».
Perché, secondo lei non lo è più?
«Attualmente no. E’ una chiave in mano a pochi, e se qualcuno la perde tutto il mondo ne paga le conseguenze».
Kofi Annan ha detto addirittura che Internet nel momento in cui consente di restare anonimi e di aprire blog senza identificarsi appoggia il terrorismo.
«Io sostengo invece che i terroristi non possono distruggere Internet, ma che la reazione del governo nei confronti del terrorismo, che consiste nel sempre maggior controllo e nella chiusura dei codici di accesso, può certamente distruggere il concetto di democrazia in rete».
Che ruolo hanno gli americani in tutto questo?
«In questo momento negli Stati Uniti stanno tentando di controllare sempre di più la rete, e questo a suo modo è terrorismo. Internet difende i diritti umani, ma è un argomento fuori moda in America».
Terrorismo a parte, quali insidie vede contro la libertà in rete?
«Bè, c’è la questione dei grandi monopoli. Le major del cinema e della musica, con gli altri grossi settori dell’industria, insistono sul concetto di licenza, di diritto d’autore, ma così facendo distruggono i fondamentibase del web».
In che senso?
«Nel senso che Internet per molti popoli oppressi è l’unica forma di contatto con la realtà, l’unico strumento in grado di far circolare e condividere le idee. Però è tendenzialmente proibito. Solo attraverso i blog c’è la possibilità per questa gente di scambiarsi idee e opinioni. Internet è la finestra sul mondo per popoli che non possono neanche affacciarsi alla finestra di casa».
Ma qual è il nesso fra questi concetti e la sua battaglia contro i diritti d’autore?
«Hollywood e le case discografiche stanno cercando di influenzare i governi e le istituzioni attraverso le loro potenti lobby, per rendere illegali le tecnologie peertopeer cercando di far diventare illegale lo sviluppo della tecnologia e usano tutti i mezzi per proteggere il copyright e di riservarsi tutti i diritti negandone la condivisione. Nel mondo della musica, però, per esempio, un numero sempre maggiore di artisti vorrebbe sganciarsi dal controllo delle major e rendere più flessibile il rapporto col pubblico. Insomma, gli stessi artisti dovrebbero avere la possibilità di divulgare liberamente le loro opere».
Per questo ha contribuito alla nascita dei Creative Commons?
«Quello che il movimento dei Creative Commos propone non è l’abolizione del copyright, ma una via intermedia. Le leggi sul copyright affermano il principio all rights reserved, noi proponiamo quello del some rights reserved: l’autore può decidere se e a che condizioni un suo lavoro può essere utilizzato gratuitamente dagli utenti. Le licenze disponibili sul sito creativecommons.org (che ha dallo scorso dicembre anche una versione italiana, grazie al lavoro di adattamento giuridico svolto dal professor Ricolfi dell’Università di Torino in collaborazione con il CNR, ndr) prevedono diversi livelli d’uso dei contenuti. In generale, finché non lo usi per fare soldi, puoi liberamente fruire del mio lavoro, e magari arricchirlo e rimetterlo in circolazione».
Ma il copyright non garantisce agli autori la sopravvivenza?
«Sì, ma il problema è che oggi per proteggere un 2% di diritti d’autore viene negato l’accesso al 98% della conoscenza. Pensiamo a tutti gli autori che desiderano semplicemente farsi conoscere o ai libri, ai film, alla musica che è introvabile perché ormai fuori dai circuiti commerciali. Gilberto Gil, ministro della Cultura brasiliano, ha adottato le licenze Creative Commons come standard perché ha visto in questa formula una possibilità per divulgare la musica brasiliana, anche la meno conosciuta, nel mondo. Gil ha partecipato lo scorso settembre insieme a David Byrne al concerto organizzato dall rivista Wired per sostenere i Creative Commons. Io poi non penso che il copyright vada completamente abolito, sono i termini che devono essere accorciati: 15 20 anni sono ragionevoli, ma stanno cercando di cambiare le leggi per renderli ancora più lunghi dei 90 anni attuali. Pensate che in teoria se cantiamo Happy Birthday in casa dovremmo ancora pagare i diritti alla Time Warner. Questo è assurdo».
Cosa rappresenta per lei l’open source, su cui tutto questo discorso chiaramente è imperniato?
«Una forma di protezione e garanzia. Non possiamo più restare vincolati a pochi grandi nomi, quelli dei sistemi proprietari, significa restare completamente nelle loro mani. Quindi diamo la possibilità di cambiare il codice e di renderlo inaccessibile a tutti. L’open source è fondamentalmente condivisione, scambio, quindi crescita».

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