Un'intervista con Howard Rheingold, autore del volume «Smart Mobs»

Nella cruna del digitale

Per lo studioso statunitense, Internet, l'etere e le infrastrutture delle telecomunicazioni sono sempre state considerate un «bene comune» da preservare dalla logica economica. Questo ha permesso la moltiplicazione delle reti sociali che hanno garantito l'innovazione tecnologica per oltre un ventennio. Per le grandi corporation quei beni comuni sono la nuova gallina con le uova d'oro. La diffusione del personal computer e dei telefoni cellulari favorisce però la fluidità dei movimenti sociali e la proliferazione delle pratiche culturali. E così la tela tessuta di notte dai «promotori» della globalizzazione viene disfatta di giorno dall'uso sociale delle tecnologie della comunicazione
17 settembre 2003
Benedetto Vecchi
Fonte: Il Manifesto - 17 Settembre 2003
L'inizio è di quelli che lasciano senza fiato. Un curioso ed eccentrico signore di mezza età passeggia per le strade di Tokyo. E' stordito dal continuo andirivieni di una folla che ricorda le onde di erba provocate da un vento capriccioso che cambia continuamente direzione su un altipiano. Ma un certo punto l'attenzione dell'osservatore è distolta da migliaia di persone che rivolgono lo sguardo al proprio telefono cellulare, digitando forsennatamente sulla tastiera. Ritorna in quella strada per più giorni e ogni volta assiste alla stessa scena. Ragazzi e ragazze che camminano scrivendo messaggi sms, uomini e donne mature che parlano fittamente al telefono, ignorando chi è al loro fianco. Il nostro annota che è la prima volta che vede in azione la txt-generation, di cui ha letto su una rivista. Alcuni mesi dopo è nelle Filippine e sta intervistando un ricercatore universitario che gli racconta come a Manila gli oppositori all'ex-presidente della repubblica - l'ex-attore Estrada - siano riusciti a cacciarlo organizzando un sit-in di protesta di fronte al palazzo presidenziale: un milione di persone che si sono date appuntamento con un passaparola utilizzando il telefono cellulare. Appuntamento che si è rinnovato per oltre una settimana, vedendo il numero dei partecipanti aumentare di giorno in giorno. Howard Rheingold, questo il nome dell'eccentrico signore di mezza età, annota nuovamente che siamo di fronte a un cambiamento epocale nell'azione collettiva e che le cause di tale trasformazione vanno ricercate dalla pervasività delle tecnologie della comunicazione, Internet e telefoni cellulari in primo luogo. E' iniziato così il suo lungo viaggio intorno al mondo, con soste in Finlandia, Germania, Inghilterra, Filippine, Giappone, Stati uniti, raccogliendo interviste, visitando università, centri di ricerca e imprese. Il risultato è un libro, da poco pubblicato da Raffaello Cortina Editore, dall'accattivante titolo Smart mobs (pp. 372, € 24,50), cioè piccole folle, ma la traduzione può trarre in inganno, perché lo studio di Rheingold non vuol dare conto solo di alcuni fenomeni sociali - la txt-generation, la polarità e il conflitto tra la difesa dei «beni comuni» e la logica economica -, ma anche di progetti di ricerca sulle nanotencologie, sul wi-fi e molto altro ancora. E' quindi un libro che sovrappone e cerca di intrecciare sempre due aspetti, uno sociale, l'altro più propriamente tencologico.

Il pregio del libro sta proprio in questi due livelli. Per quanto riguarda il primo, Howard Rheingold sottolinea più volte che ci troviamo di fronte al fatto che l'uso diffuso del computer e del telefono cellulare favorisce la crescita esponenziale di reti sociali, riassunta dalla cosiddetta «legge di Reed», dal nome dello studioso che ha sottolineato il fatto che il numero delle relazioni sociali cresce in misura maggiore dei ritmi di crescita dell'innovazione tecnologica. Ma le reti sociali e le «pratiche culturali» favorite dalla pervasività delle tecnologie digitali hanno come background la convinzione che Internet, l'etere e le infrastrutture delle telecomunicazioni sono «beni comuni», così come è un bene comune anche la cooperazione sociale che favoriscono. Ma è a questo punto che Smart Mobs cambia direzione per lasciare spazio alla descrizione sui possibili scenari dell'innovazione tecnologica prossima ventura. Le pagine dedicate alle ricerche sulle nanotecnologie, sulle «tecnologie da indossare» occupano infatti una buona metà del libro, quasi a significare che non ci sarà nessuna «rivoluzione tecnologica» dietro l'angolo, ma solo un miglioramento delle tecnologie digitali attuali per favorire quella «naturale tendenza alla cooperazione» che caratterizza gli uomini e le donne.

D'altronde questa è una caratteristica dell'autore, nota, più all'estero che in Italia, già ai tempi dei suoi precendi libri - La realtà virtuale (Baskerville) e Le comunità virtuali (Sperling&Kupfer). L'incontro con Howard Rheingold è avvenuto a Mantova durante il Festival della letteratura, ma si è poi protratto più volte in rete.

Lei usa un'espressione molto colorita paragonando l'uso di Internet o delle tecnologie digitali a una «pecora che mangia e evacua erba». Dalla lettura di «Smart Mobs» si ha però la sensazione che per lei la soluzione alla recessione economica mondiale potrebbe stare proprio nella valorizzazione economica dei beni comuni. Non le sembra che così facendo ci si trova di fronte al paradosso che quello che era uscito dalla porta - la logica economica - rientri dalla finestra?

In passato anche le ferrovie e l'elettricità venivano considerate beni comuni. Poi sono arrivate alcune imprese che hanno cominciato a specularci sopra. Nel frattempo alcune persone si arricchivano, altre raggiungevano una certa tranquillità economica, altre ancora rimanevano povere. Poi, e siamo tra la fine dell'Otttocento e i primi decenni del Novecento, la bolla speculativa è esplosa. Ne è seguito un periodo di crisi, alla fine del quale tutto si è stabilizzato. L'eredità di quel periodo è stata l'affermazione di nuove modalità nel fare business che hanno garantito, tra alti e bassi, la crescita economica. Attualmente, è frequente imbattersi in studiosi che invitano a un certo fatalismo: la crisi era inevitabile, aspettiamo che passi e poi la locomotiva dello sviluppo riprenderà la velocità giusta. La recessione è un brutto affare, inutile negarlo. Eppure le tecnologie digitali offrono opportunità inattese. Favoriscono cioè la circolazione delle informazioni che si possono tradurre in opportunità economiche. E' indubbio che l'uso intensivo del telefono cellulare in Africa, America latina o Asia può aiutare a intraprendere piccole attività economiche o sfruttare a proprio vantaggio la maggiore fluidità del mercato del lavoro. In questo libro affermo che la prossima, grande trasformazione non avrà come protagonista il computer, ma altre tecnologie meno complicate e più pervasive: il telefono cellulare e la connessione senza fili a una infrattura informativa altrettanto pervasiva della vita sociale. Se ci sarà un'uscita dalla recessione mondiale sarà perché queste tecnologie semplici e allo stesso tempo potenti avranno costi di produzione talmente bassi da dare vita a un mercato di massa. Poi spetterà alla cooperazione sociale definire cosa farne e come usarle. Non so se così rispondo alla sua domanda....

In parte. Volevo capire qual è, secondo lei, il rapporto tra un bene comune e l'attività economica. Lei sottolinea spesso che i beni comuni vanno difesi in quanto tali e che vanno preservati dalle logiche stringenti che guidano le imprese. Concordo. Ma poi leggiamo che le grandi corporation e gli stati nazionali vogliono rendere economicamente produttivi quei beni comuni....

I beni comuni devono rimanere tali. Poi entreranno in campo altri fattori per decidere come utilizzare i risultati della cooperazione sociale attivata dall'accesso ad essi. Con Internet è stato così. Ho il sospetto che piegare un bene comune alla sola logica economica comporterà un rallentamento dell'innovazione. Lo sviluppo economico dipende sempre più dalla capacità di innovare la tecnologie e i modi di fare business. Chi rallenta l'innovazione, rallenta lo sviluppo economico: per questa ragione i beni comuni devono rimanere tali. Ogni innovazione nasce da un complesso sistema sociale in cui sono coinvolti centri di ricerca, università, pratiche sociali e culturali. Cioè da una partecipazione all'uso di un bene comune che deve essere rigenerato continuamente, pena il declino di una società e della sua economia.

La parte finale di «Smart mobs» è infatti dedicata alle agguerrite politiche di controllo dei comportamenti individuali e collettivi portate avanti dalle grandi corporation e dalle istituzioni statali. Siamo quindi alla rivincita della logica economica sulla «naturale» tendenza alla cooperazione sociale su cui lei tanto insiste nel libro?

Internet è stata sicuramente usata per fare soldi, anche se il World wide web è nato e si è sviluppato al di fuori di una logica economica in senso stretto. Le grandi corporation hanno inizialmente guardato con sufficienza le aziende che nascevano nella rete, ma quando hanno capito che quello che appariva un gioco poteva diventare una miniera d'oro si sono lanciati alla conquista del cyberspazio. Il telefono cellulare è, da pochi anni, diventato l'«Internet dei poveri». Ma anche in questo caso le grandi corporation hanno capito che la cosiddetta convergenza tecnologica tra televione, computer e telecomunicazioni era a portata di mano e che poteva diventare la nuova gallina dalle uova d'oro.

Uno degli strumenti che le imprese vogliono usare per riportare all'ordine la cooperazione sociale è la legislazione sul copyright, come i digital rights managment. E' noto che si tratta di un insieme di programmi informatici e tecnologie volti a definire «dall'alto» le modalità d'uso di una particolare tecnologia. Può sembrare strano, ma questo può comportare la definizione di regole prescrittive su come si usa Internet, o un programma di transizione finanziaria o come si compiono alcune operazioni al computer in nome della tutela della proprietà intellettuale. Tutto ciò è assurdo. Basti guardare al nostro recente passato. La produzione e il miglioramento di alcuni programmi informatici sono avvenute «dal basso», cioè sono stato il risultato di una fitta rete di scambi e di pratiche sociali avvenuti fuori dalla logica mercantile. Definire per legge cosa e come fare con una determinata tecnologia rallenta l'innovazione. E tuttavia il recente digital millennium copyright act approvato dal Congresso americano va proprio in questa direzione.

La pervasività della tecnologia da lei descritta si accompagna a un'enfasi sulle reti sociali alimentate dal computer o dal telefono cellulare. Si tratta di reti informali, poco gerarchizzate, ma che hanno il loro collante in tre parole chiave: reciprocità, cooperazione e reputazione. Può spiegare meglio cosa intende?

Proporrei di partire dall'azione collettiva, un concetto sicuramente più esaustivo di quello di rete. Nell'azione collettiva i singoli sono consapevoli di collaborare, di cooperare con altri. E l'azione collettiva non riguarda solo i movimenti sociali, ma anche le interazioni sociali che avvengono nella borsa valori o nel mercato o nella ricerca scientifica. E' la società stessa che fornisce la cornice in cui collocare l'azione collettiva e i singoli sono consapevoli che il vivere in società arrecherà loro dei vantaggi, anche se ognuno di noi si muove cercando di ottimizzare e perseguire i propri interessi. Inutile negare il fatto che il web è un esempio di una cooperazione che ha soddisfatto tutti, riuscendo a trovare il modo di limitare i danni dei free-riders, gli scrocconi che si appropriavano dei risultati di quella cooperazione facendo leva proprio sulla reciprocità e la reputazione che si acquista nel cyberspazio. C'è dunque una tendenza innata nell'uomo di stare in società e lo stare in società avviene attraverso la comunicazione, cioè si parla, si scrive, si discute, definendo così obiettivi comuni da perseguire. E, visto che Internet o il telefono cellulare sono sostanzialmente strumenti per conversare e per incontrarsi senza la mediazione del gruppo sociale di appartenenza o di istituzioni governative o di una organizzazione produttiva, la loro diffusione e pervasività ha moltiplicato anche le possibilità di cooperare e collaborare.

In «Smart mobs» ci sono tantissimi esempi di «folle mobili» che si riuniscono, compiono le azioni che si sono prefissate e poi si sciolgono. Alcune volte per futili motivi - incontrarsi per entrare in un negozio e fare le stesse domandi ai commessi, come è accaduto recentemente a Roma -, altre per obiettivi ben più ambiziosi, promuovere una mobilitazione politica. Sono forse casi limiti, ma non crede che sia proprio la fluidità e l'estemporaneità la caratteristica dei movimenti sociali?

Devo dire che la prima volta che mi è capitato di soffermarmi su quello che vedevo nelle strade di Tokyo mi ha inquietato. Venti, trenta anni fa i giovani si incontravano e decidevano cosa fare. Ora tutto è mediato dal telefono, in particolare modo da quello cellulare, con una differenza sostanziale rispetto al passato: le persone rimangono in contatto continuamente. L'uso esponenziale dei messagini telefonici, gli Sms, determina una comunicazione continua, ininterotta. Se questo poi si applica all'azione militante si va incontro a esiti sorprendenti. Forse ha ragione lei quando ritiene che le «folle mobili» sono da considerare il modello esplicativo del funzionamento dei movimenti sociali o politici. Questo è stato evidente in molte occasioni, a Seattle, a Manila, ma anche in Corea del Sud durante le mobilitazioni degli studenti contro il governo o dei lavoratori che protestavano per la chiusura delle loro fabbriche. Nelle ultime elezioni presidenziali americane gli sms sono stati usate massicciamente durante le primarie. Trenta anni fa per organizzare una mobilitazioni contro la guerra nel Vietnam ci volevano tre mesi, oggi per preparare una manifestazione per la pace, come è accaduto lo scorso febbraio, ci sono volute tre settimane. Sarei quindi tentato di rispondere alla sua domanda sostenendo che i movimenti sociali cambiano le proprie forme di azione parallelamente ai cambiamenti intervenuti nella tecnologia della comunicazione.

Dal mio punto di vista, non posso quindi che sottolineare due tendenze contradditorie tra loro. Da una parte, i media globali e e la crescente interdipendenza economia tra i paesi favoriscono l'affermazione di una monocultura al punto che i diversi paesi sembrano le fotocopie di un originale definito dai «promotori» della globalizzazione. E tuttavia l'uso accorto di alcuni media - internet e l'ultima generazione dei telefonini cellulari - da parte sopratutto dei giovani dà vita a pratiche sociali e culturali che minano dall'interno l'organicità di quella monocultura. In altri termini, la tela tessuta di notte dai media globali viene disfatta di giorno dall'uso sociale delle tecnologie della comunicazione.

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