Conoscenza da condividere
La «privatizzazione» delle scoperte scientifiche viene praticata anche dai centri di ricerca «pubblici» per impedire che i privati se ne approprino in via esclusiva. Una costrizione «sistemica» che limita la crescita della conoscenza (impresa sempre e comunque collettiva). Si cerca una via alternativa, che potrebbe mutuare alcuni princìpi fondativi del software open source
28 settembre 2003
Franco Carlini
Fonte: Il Manifesto - 28 Settembre 2003
Sembra che uno dei motivi per cui Valentino Rossi e la Honda
non si sono ancora messi d'accordo per il rinnovo del contratto dipenda dal fatto
che la casa motociclistica giapponese intende fornire a 6 piloti e non al solo
Valentino la moto ultimo modello, la migliore. Il ragazzo di Tavullia sostiene
che quella supermoto è frutto del suo lavoro di collaudatore e consigliere,
oltre che del resto della squadra e dei capitali messi a disposizione dalla Honda;
non chiede soldi ulteriori ma un monopolio d'uso almeno temporaneo perché
quell'oggetto della velocità è il risultato anche della sua conoscenza
e del suo saper fare. Il che è senza dubbio vero e a ben pensarci questo
è esattamente il principio della proprietà intellettuale: un inventore
ottiene dallo stato un diritto temporaneo a utilizzare in regime di monopolio
il frutto della sua creatività, passato il quale essa ricadrà nel pubblico
dominio. Il piccolo episodio conferma quanto cruciale e diffusa in tutti settori
sia ormai la questione della proprietà intellettuale: se è società
della conoscenza, allora attorno ad essa si accumulano interessi, conflitti e
contese. Lo stesso avviene sempre più spesso anche nel campo della ricerca,
anche in quella pura, accademica e disinteressata. Di chi sono le idee della Scienza?
Se lo è chiesto la settimana scorsa la giornalista Rossella Castelnuovo,
conducendo la trasmissione Radio3 Scienza. La stessa domanda campeggia nel titolo
di un libro americano, scritto da Corinne McSherry, della Stanford Law School:
«Who owns academic work?». La puntata radiofonica è disponibile
in rete, all'indirizzo http://www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/scienza/archivio_2003/audio/scienza2003_09_23.ram.
La questione sta diventando sempre più calda, da quando i fondi universitari scarseggiano e le università, americane come italiane, sono sollecitate sempre più frequentemente a cercare i finanziamenti in un virtuoso (?) rapporto con il mercato. L'effetto tuttavia è spesso devastante, nel senso che mentre rimane formalmente indiscussa l'idea che le università siano lì apposta per produrre conoscenza a beneficio dell'umanità, i dipartimenti, ma anche i singoli ricercatori vengono spinti a reclamare diritti, brevetti e copyright su quelle stesse idee e ricerche.
Il caso che apre il libro di McSherry è esemplare: Huguette Pelletier nel 1993 studiava all'università di California a San Diego, nel laboratorio di Joseph Kraut, un noto biochimico, e lì aveva messo a punto un sistema per la crescita cristallina di una proteina dei ratti, la polimerasi-beta, decisiva per la riparazione del Dna. Ma un'altra ricercatrice dello stesso laboratorio, Michele McTigue, alla sera raccontava quelle ricerche al marito Jay Davies, della casa farmaceutica Agouron (in seguito assorbita dalla Pfizer). Battendo tutti sul tempo, i risultati vennero pubblicati dalla Agouron Pharmaceuticals sulla rivista Cell il 25 marzo 1994. Anche Pelletier pubblicò a sua volta, sulla rivista Science, ma arrivando inevitabilmente seconda.
Ne seguì una causa legale e nel 1998 il tribunale condannò la Agouron a pagare 200 mila dollari come risarcimento. Huguette tuttavia non ottenne il risultato morale che più le stava a cuore, ovvero il ritiro ufficiale dell'articolo «rubato». Nell'anno 2000 poi, un tribunale d'appello confermava la sentenza di primo grado, ma riduceva il risarcimento al valore simbolico di un dollaro, sostenendo che Pelletier non aveva ricevuto un danno reale dal furto delle sue idee. Nel frattempo, delusa da tutta la storia, la ricercatrice aveva abbandonato la carriera scientifica, dedicandosi a un centro di supporto sociale di Los Angeles
Al di là dell'esito monetario, la questione sembrerebbe lineare: la conoscenza sulla polimerasi-beta proveniva dal lavoro di Pelletier e altri ne avevano rivendicato abusivamente la priorità; il tribunale ha dunque correttamente ripristinato il diritto del primo inventore. A ben scavare, tuttavia, le cose sono un po' più complicate. Come segnala il libro di McSherry, per vincere la sua causa Huguette Pelletier ha dovuto in sostanza rivendicare una proprietà personale su un bene pubblico, le idee prodotte nella sua ricerca. Nel caso specifico i legali vinsero la causa vestendola sotto la fattispecie della appropriazione di segreti commerciali, che poi è la stessa legislazione cui fa ricorso la Coca Cola per difendere la sua non molto misteriosa ricetta.
E' un processo che gli studiosi del settore chiamano «proprietarizzazione». Salvo i casi rarissimi di pensatori solitari, la ricerca scientifica avviene in sedi a vocazione pubblica come le università, e i singoli progetti sono finanziati da enti statali. Non solo: chi fa ricerca sperimentale, usa attrezzature di laboratorio che già lì trova e ci lavora con del personale universitario di staff. Più in generale il ricercatore si inserisce in un flusso e in un ambiente culturale che a lui pre-esiste e che è anch'esso un bene pubblico. Certamente egli ci mette del suo: passione, intelletto, cultura, ma è difficile sostenere che quei risultati siano soltanto suoi. Lo stesso articolo pubblicato da Pellettier, non per caso portava la firma di altri quattro autori e quelli di fisica delle particelle possono avere addirittura anche un centinaio di autori, trattandosi di squadre enormi. In altre parole le idee delle scienza sono sempre figlie di un processo storicamente situato e di una moltitudine di contributi.
La contraddizione dunque è questa: che i ricercatori universitari per difendere la libera circolazione delle idee devono reclamarne la proprietà. L'ideologia è quella della conoscenza come bene pubblico, la pratica diventa quella della «proprietarizzazione». Dunque a brevetti e copyright ricorrono anche le università e i ricercatori che credono nel valore pubblico della conoscenza finiscono per praticare una doppia morale e si giustificano dicendo che altrimenti qualche altro privato potrebbe brevettare al posto loro, rinchiudendo le idee anziché liberarle.
Una buona indicazione alternativa è venuta l'anno scorso da un gruppo di esperti che si sono riuniti a Yale. Essi propongono che le università aderenti al progetto Cipra (centro per le ricerche interdisciplinari sull'Aids) si impegnino a non brevettare le loro scoperte nei paesi in via di sviluppo e ad offrire a questi paesi, invece, delle licenze che rendano i farmaci relativi disponibili a un costo appropriato, in quantità sufficienti e rapidamente. In pratica si tratta di una forma moderata di licenza «Open Source» simile a quella del software aperto e più avanzata della mediazione tra nord e sud del mondo raggiunta recentemente, poco prima della conferenza di Cancun.
Questa probabilmente è l'unica strada praticabile: anziché mettersi in gara con i privati per brevettare le ricerche, più ragionevolmente quelli che ci credono dovrebbero rilasciarle sotto una licenza pubblica, analoga a quella usata per i software alla Linux: tutti possono usare quelle idee e quei risultati, ma nessuno li può rivendere e farli propri.
La questione sta diventando sempre più calda, da quando i fondi universitari scarseggiano e le università, americane come italiane, sono sollecitate sempre più frequentemente a cercare i finanziamenti in un virtuoso (?) rapporto con il mercato. L'effetto tuttavia è spesso devastante, nel senso che mentre rimane formalmente indiscussa l'idea che le università siano lì apposta per produrre conoscenza a beneficio dell'umanità, i dipartimenti, ma anche i singoli ricercatori vengono spinti a reclamare diritti, brevetti e copyright su quelle stesse idee e ricerche.
Il caso che apre il libro di McSherry è esemplare: Huguette Pelletier nel 1993 studiava all'università di California a San Diego, nel laboratorio di Joseph Kraut, un noto biochimico, e lì aveva messo a punto un sistema per la crescita cristallina di una proteina dei ratti, la polimerasi-beta, decisiva per la riparazione del Dna. Ma un'altra ricercatrice dello stesso laboratorio, Michele McTigue, alla sera raccontava quelle ricerche al marito Jay Davies, della casa farmaceutica Agouron (in seguito assorbita dalla Pfizer). Battendo tutti sul tempo, i risultati vennero pubblicati dalla Agouron Pharmaceuticals sulla rivista Cell il 25 marzo 1994. Anche Pelletier pubblicò a sua volta, sulla rivista Science, ma arrivando inevitabilmente seconda.
Ne seguì una causa legale e nel 1998 il tribunale condannò la Agouron a pagare 200 mila dollari come risarcimento. Huguette tuttavia non ottenne il risultato morale che più le stava a cuore, ovvero il ritiro ufficiale dell'articolo «rubato». Nell'anno 2000 poi, un tribunale d'appello confermava la sentenza di primo grado, ma riduceva il risarcimento al valore simbolico di un dollaro, sostenendo che Pelletier non aveva ricevuto un danno reale dal furto delle sue idee. Nel frattempo, delusa da tutta la storia, la ricercatrice aveva abbandonato la carriera scientifica, dedicandosi a un centro di supporto sociale di Los Angeles
Al di là dell'esito monetario, la questione sembrerebbe lineare: la conoscenza sulla polimerasi-beta proveniva dal lavoro di Pelletier e altri ne avevano rivendicato abusivamente la priorità; il tribunale ha dunque correttamente ripristinato il diritto del primo inventore. A ben scavare, tuttavia, le cose sono un po' più complicate. Come segnala il libro di McSherry, per vincere la sua causa Huguette Pelletier ha dovuto in sostanza rivendicare una proprietà personale su un bene pubblico, le idee prodotte nella sua ricerca. Nel caso specifico i legali vinsero la causa vestendola sotto la fattispecie della appropriazione di segreti commerciali, che poi è la stessa legislazione cui fa ricorso la Coca Cola per difendere la sua non molto misteriosa ricetta.
E' un processo che gli studiosi del settore chiamano «proprietarizzazione». Salvo i casi rarissimi di pensatori solitari, la ricerca scientifica avviene in sedi a vocazione pubblica come le università, e i singoli progetti sono finanziati da enti statali. Non solo: chi fa ricerca sperimentale, usa attrezzature di laboratorio che già lì trova e ci lavora con del personale universitario di staff. Più in generale il ricercatore si inserisce in un flusso e in un ambiente culturale che a lui pre-esiste e che è anch'esso un bene pubblico. Certamente egli ci mette del suo: passione, intelletto, cultura, ma è difficile sostenere che quei risultati siano soltanto suoi. Lo stesso articolo pubblicato da Pellettier, non per caso portava la firma di altri quattro autori e quelli di fisica delle particelle possono avere addirittura anche un centinaio di autori, trattandosi di squadre enormi. In altre parole le idee delle scienza sono sempre figlie di un processo storicamente situato e di una moltitudine di contributi.
La contraddizione dunque è questa: che i ricercatori universitari per difendere la libera circolazione delle idee devono reclamarne la proprietà. L'ideologia è quella della conoscenza come bene pubblico, la pratica diventa quella della «proprietarizzazione». Dunque a brevetti e copyright ricorrono anche le università e i ricercatori che credono nel valore pubblico della conoscenza finiscono per praticare una doppia morale e si giustificano dicendo che altrimenti qualche altro privato potrebbe brevettare al posto loro, rinchiudendo le idee anziché liberarle.
Una buona indicazione alternativa è venuta l'anno scorso da un gruppo di esperti che si sono riuniti a Yale. Essi propongono che le università aderenti al progetto Cipra (centro per le ricerche interdisciplinari sull'Aids) si impegnino a non brevettare le loro scoperte nei paesi in via di sviluppo e ad offrire a questi paesi, invece, delle licenze che rendano i farmaci relativi disponibili a un costo appropriato, in quantità sufficienti e rapidamente. In pratica si tratta di una forma moderata di licenza «Open Source» simile a quella del software aperto e più avanzata della mediazione tra nord e sud del mondo raggiunta recentemente, poco prima della conferenza di Cancun.
Questa probabilmente è l'unica strada praticabile: anziché mettersi in gara con i privati per brevettare le ricerche, più ragionevolmente quelli che ci credono dovrebbero rilasciarle sotto una licenza pubblica, analoga a quella usata per i software alla Linux: tutti possono usare quelle idee e quei risultati, ma nessuno li può rivendere e farli propri.
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