Asimmetrie del diritto: il brevetto
Non è vero - come vorrebbe la teoria dominante - che coprire le invenzioni con i brevetti costituisca uno stimolo alla scoperta. E il progresso economico dei paesi, spesso, si poggia sulla capacità di «copiare» quello che - nell'uso - si rivela più utile e produttivo
5 ottobre 2003
Franco Carlini
Fonte: Il Manifesto - 5 Ottobre 2003
Londra, 1851: ecco la meraviglia delle meraviglie, il Crystal
Palace, progettato in soli dieci giorni, voluto dal principe Alberto, consorte
della regina Vittoria e realizzato con una struttura insieme poderosa e leggera
di acciaio e vetro (perciò il nome di Palazzo di Cristallo) a Hyde Park.
Era allora il più grande spazio coperto al mondo, con un'estensione pari
a quattro volte la basilica di San Pietro e in quel luogo l'Inghilterra vittoriana
celebrava se stessa e il suo ruolo di leader industriale. Alla Great Exhibition
parteciparono 7.062 espositori da 25 paesi e 15 colonie e venne visitata da più
di sei milioni di visitatori. Venticinque anni dopo, nel 1876, un evento analogo
si svolgeva il terra americana: fu la Centennial Exhibition di Filadelfia, in
occasione del centenario della Dichiarazione di Indipendenza: quasi un passaggio
di mano e di leadership industriale. I cataloghi dettagliati dei 32.952 prodotti
esibiti in quelle due grandi fiere hanno qualcosa da dirci anche sull'oggi e su
un tema scottante, quello dei diritti di proprietà intellettuale, grazie
a uno studio meticoloso di Petra Moser, della Sloan School of Management del Mit.
La studiosa ha dunque costruito e poi analizzato un grande database per cercare
di capire il ruolo del sistema dei brevetti nello stimolare l'innovazione, nei
diversi paesi. Per questo suo lavoro è stata di recente premiata dall'associazione
americana di storia economica.
La teoria consolidata dice che i brevetti, con i quali un inventore ottiene dallo stato un monopolio limitato nel tempo (di solito 20 anni) per lo sfruttamento esclusivo della sua invenzione, hanno una potente funzione di incentivo alla ricerca; se non ci fosse quella protezione e se ognuno potesse liberamente copiare le invenzioni altrui, allora agli inventori passerebbe la voglia di farlo.
Fin qui la teoria, che però non si appoggia sempre su adeguate basi storiche o empiriche. Va notato tra l'altro che solo una parte dei brevetti registrati diventa una innovazione economicamente utile e che, viceversa, non tutte le innovazioni tecnologiche sono brevettate. L'analisi fatta da Moser sugli oggetti esposti nella seconda metà dell'ottocento a Londra e Parigi indica una situazione molto più differenziata, per settori tecnologici e per paesi. Per dirla con le parole della stessa studiosa: «non ho trovato alcune prova che le leggi sui brevetti incrementino effettivamente il livello di attività innovativa, ma semmai la prova che le leggi influenzano la distribuzione dell'innovazione tra le diverse industrie».
In quei tempi tre paesi non avevano una legislazione sui brevetti: erano la Svizzera, l'Olanda e la Danimarca, ma ciò nonostante erano ben presenti alla fiere e ricevettero anche molte medaglie per i prodotti presentati. La Svizzera in particolare si distingueva per i molti strumenti scientifici e per le tecniche relative al trattamento del cibo. La studiosa si guarda bene dal trarre dalla sua analisi delle leggi generali, ma i dati empirici che propone meritano una riflessione. Intanto c'è la conferma che molti paesi, nella fase della loro prima industrializzazione, traggono maggiore beneficio dalla importazione (e eventuale copiatura) delle invenzioni di altri paesi: in qualche modo tutti i sistemi economici (anche quello statunitense) sono stati dei pirati della proprietà intellettuale altrui. Solo quando una certa industria locale si è sufficientemente sviluppata, allora quel paese sente il bisogno di tutelarla dotandosi di leggi sui brevetti. Così è andata la storia e così sta succedendo anche oggi, a conferma che il diritto allo sfruttamento della proprietà intellettuale non può essere considerato un diritto assoluto, ma che è storicamente situato, all'interno di un processo.
La Svizzera per esempio quando infine adottò una legge nazionale, decise che potevano essere brevettate solo quelle invenzioni che potevano essere rappresentate con dei modelli o delle repliche fisiche. E perché mai? Perché in questo modo sarebbero rimaste esclusi i processi chimici e di colorazione dei tessuti che la sua industria nazionale abbondantemente copiava dall'estero.
I quali brevetti, peraltro, non sono sempre così efficienti nella protezione: infatti per ottenerne uno occorre depositare negli appositi uffici una dettagliata descrizione dell'invenzione e questo apre la strada, inevitabilmente, a dei rischi di copiatura. Ecco allora che i famosi orologiai svizzeri dell'ottocento non ci pensano nemmeno a brevettare alcunché: mettono in atto invece altri meccanismi di autotutela, il cui scopo è di mantenere il segreto industriale. Per esempio gli orologiai di Ginevra vietano l'ingresso a ogni estraneo nei loro laboratori e quelli della valle di Joux si accordano per non assumere nelle loro imprese alcun apprendista, per il timore che questi diffondano all'esterno i loro segreti. Da qui sembra emergere un'altra regola empirica: il brevetto viene usato con profitto soprattutto nel caso di invenzioni che siano facilmente imitabili: in questo caso permette di difenderle almeno per un po' di tempo. Se invece è difficile scoprire come un'invenzione funziona, allora sarà più efficace la pratica del segreto industriale.
Raccontando la sua ricerca in un seminario alla università del Maryland, Petra Moser ha commentato: «Noi stiamo cercando di forzare l'emanazione di leggi sui brevetti nei paesi in via di sviluppo, dicendo loro che `questo è buono per voi'. E ci stupiamo quando ci dicono che non le vogliono. Ma essi hanno un punto di forza dalla loro perché leggi di quel tipo possono frenare l'innovazione in quei paesi».
La teoria consolidata dice che i brevetti, con i quali un inventore ottiene dallo stato un monopolio limitato nel tempo (di solito 20 anni) per lo sfruttamento esclusivo della sua invenzione, hanno una potente funzione di incentivo alla ricerca; se non ci fosse quella protezione e se ognuno potesse liberamente copiare le invenzioni altrui, allora agli inventori passerebbe la voglia di farlo.
Fin qui la teoria, che però non si appoggia sempre su adeguate basi storiche o empiriche. Va notato tra l'altro che solo una parte dei brevetti registrati diventa una innovazione economicamente utile e che, viceversa, non tutte le innovazioni tecnologiche sono brevettate. L'analisi fatta da Moser sugli oggetti esposti nella seconda metà dell'ottocento a Londra e Parigi indica una situazione molto più differenziata, per settori tecnologici e per paesi. Per dirla con le parole della stessa studiosa: «non ho trovato alcune prova che le leggi sui brevetti incrementino effettivamente il livello di attività innovativa, ma semmai la prova che le leggi influenzano la distribuzione dell'innovazione tra le diverse industrie».
In quei tempi tre paesi non avevano una legislazione sui brevetti: erano la Svizzera, l'Olanda e la Danimarca, ma ciò nonostante erano ben presenti alla fiere e ricevettero anche molte medaglie per i prodotti presentati. La Svizzera in particolare si distingueva per i molti strumenti scientifici e per le tecniche relative al trattamento del cibo. La studiosa si guarda bene dal trarre dalla sua analisi delle leggi generali, ma i dati empirici che propone meritano una riflessione. Intanto c'è la conferma che molti paesi, nella fase della loro prima industrializzazione, traggono maggiore beneficio dalla importazione (e eventuale copiatura) delle invenzioni di altri paesi: in qualche modo tutti i sistemi economici (anche quello statunitense) sono stati dei pirati della proprietà intellettuale altrui. Solo quando una certa industria locale si è sufficientemente sviluppata, allora quel paese sente il bisogno di tutelarla dotandosi di leggi sui brevetti. Così è andata la storia e così sta succedendo anche oggi, a conferma che il diritto allo sfruttamento della proprietà intellettuale non può essere considerato un diritto assoluto, ma che è storicamente situato, all'interno di un processo.
La Svizzera per esempio quando infine adottò una legge nazionale, decise che potevano essere brevettate solo quelle invenzioni che potevano essere rappresentate con dei modelli o delle repliche fisiche. E perché mai? Perché in questo modo sarebbero rimaste esclusi i processi chimici e di colorazione dei tessuti che la sua industria nazionale abbondantemente copiava dall'estero.
I quali brevetti, peraltro, non sono sempre così efficienti nella protezione: infatti per ottenerne uno occorre depositare negli appositi uffici una dettagliata descrizione dell'invenzione e questo apre la strada, inevitabilmente, a dei rischi di copiatura. Ecco allora che i famosi orologiai svizzeri dell'ottocento non ci pensano nemmeno a brevettare alcunché: mettono in atto invece altri meccanismi di autotutela, il cui scopo è di mantenere il segreto industriale. Per esempio gli orologiai di Ginevra vietano l'ingresso a ogni estraneo nei loro laboratori e quelli della valle di Joux si accordano per non assumere nelle loro imprese alcun apprendista, per il timore che questi diffondano all'esterno i loro segreti. Da qui sembra emergere un'altra regola empirica: il brevetto viene usato con profitto soprattutto nel caso di invenzioni che siano facilmente imitabili: in questo caso permette di difenderle almeno per un po' di tempo. Se invece è difficile scoprire come un'invenzione funziona, allora sarà più efficace la pratica del segreto industriale.
Raccontando la sua ricerca in un seminario alla università del Maryland, Petra Moser ha commentato: «Noi stiamo cercando di forzare l'emanazione di leggi sui brevetti nei paesi in via di sviluppo, dicendo loro che `questo è buono per voi'. E ci stupiamo quando ci dicono che non le vogliono. Ma essi hanno un punto di forza dalla loro perché leggi di quel tipo possono frenare l'innovazione in quei paesi».
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