Hacker a convegno, il sogno di una cultura senza copyright
Cosa direste se qualcuno vi impedisse di aprire il cofano dell’automobile per cambiare da soli il filtro dell’aria senza passare per la concessionaria? Cosa accadrebbe se vi chiedessero di pagare ogni volta che rileggete un libro dalla vostra biblioteca personale? Come rispondereste se volessero identificarvi quando entrate al supermercato? Probabilmente vi arrabbiereste. E tanto.
Eppure è quello che fanno produttori di hardware, software e rivenditori di servizi Internet che stanno trasformando l’era dei computer in una società della sorveglianza dove non si sarà più liberi di disporre liberamente dei propri oggetti digitali o di muoversi nella rete delle reti.
E proprio per parlare di questo, ma non solo, gli hacker italiani si sono riuniti a Parma per una tre giorni di incontri, feste e dibattiti. Raccolti intorno al nono Hackmeeting, il ritrovo annuale delle controculture digitali del Belpaese, in uno stabile recuperato dall’abbandono per ospitare l’evento, una ex-sede Usl, circa duemila tra programmatori, mediattivisti, grafici ed esperti di sicurezza informatica hanno condiviso saperi e informazioni su tutto lo scibile di reti, software e computer in maniera gratuita e autogestita. I seminari, alcuni dei quali farebbero invidia al Mit di Boston, hanno fatto il punto su tre questioni fondamentali di Internet e della comunicazione online: la privacy, la sicurezza, la libertà delle interazioni digitali, riconoscendole come tematiche interconnesse.
Non è ovvio infatti ricordare che ad ogni richiesta su un motore di ricerca si viene tracciati e che i dati che produciamo nelle nostre interazioni vengono infilati dentro statistiche e database commerciali: questo dovrebbe renderci più avvertiti che ogni connessione alla rete è trasparente se non adeguatamente protetta; oppure potrebbe disturbarci sapere che ad ogni parola chiave digitata i soliti motori associano delle pubblicità ad hoc per guidarci lungo percorsi di scelta prestabiliti dagli inserzionisti, temi questi trattati nel seminario parmense sulla “parte oscura di Google”.
Ugualmente si dovrebbe considerare che essendo oggi molti servizi della vita quotidiana dipendenti dalla qualità e dalla robustezza dei server computer che ne gestiscono i flussi - come la distribuzione di energia elettrica o di gas, l’home banking o il fisco elettronico - abbassare la guardia sulla mancanza di trasparenza dell’hardware e del software usati potrebbe essere assai pericoloso, e perciò molti discorsi si sono orientati a capire come e con quali sistemi garantire l’inviolabilità delle macchine, partendo dal concetto opposto, cioè come è possibile violare la loro sicurezza.
Il concetto di libertà è stato però il leit motiv di tutte le giornate seminariali. “Libertà da” censure, monopoli, violenza e repressione. “Libertà di” condividere, creare, apprendere, cooperare, in tempi dove un nuovo oscurantismo tecnologico vorrebbe modificare abitudini inveterate come quella di prestare un film, una canzone, un libro digitalizzati. Questo è lo scenario nel quale ci introducono le tecnologie per la gestione dei diritti digitali (i cosiddetti Drm) e il trusted computing, quei dispositivi hardware e software di nuova generazione in grado di riconoscere se un software, un cd o un dvd sono stati pagati oppure no, se sono originali o masterizzati, e finanche di impedirne l’esecuzione. Ma anche la libertà di mettere le mani dentro un programma software e riscriverlo se si inceppa, senza andare incontro a una denuncia per violazione di brevetto o di copyright. O ancora, la libertà di costruire su ciò che gli antenati ci hanno lasciato in prestito: un’aria, un dramma, un film, per farne opere derivate, mantenere quel legame creativo fra le generazioni e impedire l’amnesia collettiva della storia.
Ma anche libertà di vivere in una città che sia tale, luogo di incontri, convivialità e progetti e non solo vetrina di merci costose e residenza di furbetti. Una libertà che gli occupanti della ex Usl di via Buffolara hanno rivendicato, ponendo la questione degli spazi sociali in una città, Parma, dove i luoghi di aggregazione a pagamento obbediscono alla logica del divertimentificio, dimenticando una lunga storia di città aperta e solidale. Una città iperproduttiva dove non c’è spazio per l’ozio creativo e dove il pensiero dominante è quello del consumo.
Una prospettiva, quella del “produci, consuma crepa”, avversata da molti degli hacker presenti che, restituendo alla città uno spazio fatiscente hanno recuperato il tempo della socialità, per pensare e imparare insieme, dando dimostrazione di come riciclare conviene ed è divertente. Come? Ad esempio costruendo dieci “cantenne”, cioè le antenne wireless che si ricavano dalle lattine di birra grazie a un seghetto e qualche nozione di teoria della trasmissione delle onde elettromagnetiche. Oppure azionando un motore Sterling, cioè un motore a calore, messo in funzione a via Buffolara dalla concentrazione dei raggi solari tramite una piccola parabolica rivestita di alluminio, occasione per ragionare anche sul digital divide dei paesi dove non ci sono né computer né elettricità. O ancora il *Magosauro*, della comunità Gentoo, un computer Linux costruito dentro una scatola di plastica di giochi per bambini e ribaltare la logica che vuole dotarci di computer sempre più potenti, sempre più costosi, impedendone però gli usi non convenzionali né prestabiliti dai produttori.
L’hackmeeting di Parma è stato tutto questo e la sua conclusione, in un’atmosfera rilassata e amichevole non poteva che essere un invito a perseguire nuove modalità di resistenza e di conflitto di fronte alle costanti minacce alla libertà. Perchè, come dice il guru del software libero, Richard Stallman: “se non dai valore alla tua libertà, è molto più facile perderla”.
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