Un Terzo Luogo, anzi molti
Provate a immaginare un luogo che abbia queste sei caratteristiche: 1) offre un territorio neutrale; 2) lo status sociale non è importante; 3) la principale attività che vi si svolge è la conversazione; 4) l'accesso è facile e gradevole, e c'è un certo numero di frequentatori regolari; 5) il clima è di basso profilo, senza eccessi vistosi; 6) ci si sente a casa. Però questo luogo non è la vostra casa né il posto di lavoro, è un Terzo Luogo. Così lo chiamò nel 1989 il professor Ray Oldenburg, allora alla University of West Florida, tratteggiandone le caratteristiche in un libro divenuto un classico, «The Great Good Place».
Di fronte a una descrizione del genere il pensiero corre ai bar e alle osterie (non a tutti i bar, né a tutte le vinerie) e infatti la catena di caffè americana Starbucks nelle sue attività di marketing, si autodefinisce the third place, volendo indicare che è un altro luogo da frequentarsi tra casa e lavoro, una «casa lontana da casa», dove stare tranquilli, soli o in compagnia. In molti casi dotati anche di connessione internet. Sull'onda di questa terzietà si è diffusa anche un'altra espressione, il «Terzo Schermo», dove il primo è quello della televisione, il secondo il monitor del computer e il terzo quello dei telefoni cellulari.
Jason Fry, commentatore di tecnologia al quotidiano americano The Wall Street Journal, ha di recente cercato di adattare agli spazi della rete la teoria di Oldenburg sui terzi luoghi e l'idea è interessante perché sfugge alla dicotomia un po' manichea tra la vita reale e quella virtuale che si svolge sull'internet e che ebbe il suo capolavoro letterario nel romanzo Snow Crashdi Neal Stevenson. Era il 1992, e lo scrittore post-cyberpunk raccontava un «Metaverso» dove persone vere agiscono e interagiscono e il reale e il virtuale si influenzano. L'idea che si va sviluppando è che tra i due mondi non ci sia separazione totale, né completa fusione, ma qualcosa di misto, invece. Ma sul fatto che essi interagiscano non c'è dubbio. Per esempio scrivendo questo articolo l'autrice ha fatto tre search a Google e Wikipedia (per verificare l'università del professore e controllare la data di pubblicazione di Snow Crash). Nel frattempo è arrivata la newsletter del giornale preferito, il Los Angeles Times, con la notizia abbastanza disastrosa che il governatore Schwarzenegger è robustamente in testa nei sondaggi per le elezioni di novembre. Intanto un amico, collegato in Instant messaging, si è accorto che eravamo in linea e ci ha augurato buona domenica. Tutto questo ci ricorda che per molte attività le reti sono completamente integrate nella vita quotidiana, la influenzano e ne sono influenzate, in meglio o in peggio. Per esempio abbiamo imparato a tenere la tazza del tè lontana dalla tastiera, da quando il gatto rovesciò l'una sull'altra.
Fin qua tutto normale, come è stato normale «salvare» questo articolo in lavorazione, trasferirlo a infrarossi su di un cellulare che opera anche come un computer e portarselo alla spiaggia per correggerlo. Ci sembrano grandi novità, ma lo sono sempre meno e comunque della loro importanza ci accorgiamo quando per qualche disgrazia Google mail si blocca (succede sempre più di rado, ma succede) o quando, peggio ancora, la compagnia telefonica ha un guasto e ci si trova boccheggianti senza connessione.
Ma anche in rete, questa è la tesi, c'è ormai un Terzo Posto, anzi molti. Un tempo li chiamavamo Comunità virtuali (Rheingold, The Virtual Community, 2000), oggi si chiamano soprattutto Blogosfera e Social Networks. Comunità assai labili, effettivamente, dove è raro trovare quella stretta intimità e comunanza di spiriti della leggendaria The Well di Sausalito (www.well.com). Anche l'aggettivo «sociale» è ingannevole: non significa che siano reti socialmente impegnate, ma soltanto che si autocoinfigurano per effetto dei legami di conoscenza (in questo senso sociali) che i suoi frequentatori hanno, attivano e alimentano, anche attraverso le tecnologie digitali.
Raccolgono però milioni di abitanti, che si aggregano per gruppi di amici, spesso locali, e per temi di interesse. Se la più nota rete sociale è MySpace, acquistata l'anno scorso da Murdoch, tuttavia essa è ormai così piena, così caotica, che altre ne vanno nascendo, più verticali (per temi) o per aree geografiche, o ancora, spontaneamente, per demografia. Prendete Piczo.com. I suoi server sono a San Francisco (c'era da scommetterci), ma la sua popolazione è fatta di ragazzi e soprattutto ragazze canadesi. Ognuno/a ha il suo profilo, le sue foto, c'è una colonna sonora sempre attiva, le faccette sono inevitabilmente giovanissime e tanto multiculturali. Lo stesso per Facebook, nato per gli studenti dei college, ma oggi pronto al grande salto vero il grande pubblico. Stiamo parlando di terzi luoghi che raccolgono circa 10-15 milioni di visitatori unici al mese. La tendenza è dirompente, non può essere considerata giovanilistica e sarà il caso di esplorarli meglio.
sar.tobias@gmail.com
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