Di sito in sito per conquistare l'archivio delle intenzioni
Nel blog di John Battelle (battelle.com) è facile imbattersi in messaggi che discettano più o meno amichevolmente sul search engine, cioè su quell'insieme di programmi informatici, strategie commerciali e studi universitari che hanno a che fare con la ricerca su Internet. D'altronde un blog è proprio questo: un gruppo di discussione che interagisce in tempo reale attorno a un tema. Quello di Battelle è dedicato alla ricerca sul web e nei giorni in cui si rincorrevano le voci sull'acquisto di YouTube da parte di Google era pieno di commenti sulla portata per Internet dell'accordo. John Battelle scriveva come una giornalista che era di casa a Mountain View. D'altronde conosce molto bene Google. Per cinque anni, infatti, ha studiato a fondo Google per capire se il sogno di consentire a tutti di trovare qualunque cosa nel web era solo il sogno di due ventenni pieni di ormoni oppure un preciso piano imprenditoriale. Cinque anni in cui Battelle ha maturato, come emerge anche in questa intervista, una vera e propria ammirazione per la società fondata da Larry Page e Sergey Brin.
«Don't be evil», non essere cattivo: così recita lo storico refrain di Google. Allo stesso tempo, Larry Page e Sergey Brin non hanno mai nascosto il sogno di rendere universale l'accesso ai contenuti del web. Cosa rimane di questo proposito nel Googleplex?«Non essere cattivo» è ancora il «marchio d'origine controllata» di Google. E credo che lo rimarrà a lungo. Ma spesso tra i sogni e la realtà c'è contraddizione. Prendiamo il noto caso della decisione da parte di Larry Page e Sergey Brin di accettare i diktat del governo cinese per escludere dalle ricerche riferimenti a temi scomodi per Pechino. Google ha, inizialmente, posto una debole resistenza. Poi di fronte alla minaccia di essere esclusa dal mercato cinese ha capitolato. Lo ha fatto in base a un ragionamento semplice: la Cina è il mercato del futuro e se siamo tagliati fuori da quel mercato siamo tagliati fuori dal futuro. Una decisione che ha certamente indebolito l'immagine di Goggle. E tuttavia, sia Larry Page che Sergey Brin hanno masticato amaro e considerano la partita ancora aperta. Ritengo che sia una scelta contingente e dunque reversibile, come dimostra la resistenza che Google ha posto alle pressioni del governo americano di poter spulciare, in nome della sicurezza nazionale, tra i clickstream (le tracce memorizzate della navigazione in rete degli utenti di Google, n.d.r). Google ha infatti più volte affermato che respingerà sempre richieste da parte del governo di accedere ai dati individuali memorizzati nei suoi server.
Nel suo libro però lei sottolinea che molti internauti considerano il comportamento di Google lesivo della privacy. Lei tuttavia scrive che la privacy è una questione di fiducia. Non crede invece che servono precisi limiti all'azione dei governi e delle corporation nell'acquisire e usare dati personali?Prima del web, erano chiari i limiti all'operato del governo e delle corporation rispetto ai dati personali. Internet ha però cambiato il panorama. E se in passato molti dati personali erano raccolti dalle imprese o dal governo ma rimanevano per così dire sepolti dalla montagna di documenti cartacei in cui erano «depositati», ora sono alla portata di qualsiasi mouse. Prendiamo le recenti polemiche sul comportamento di Fbi e di altre agenzie governative della sicurezza rispetto all'acquisizione dei clickstream individuali. Molti gruppi di difesa dei diritti civili hanno sostenuto che più di un articolo della costituzione statunitense era stato violato. Lo stesso si può dire dell'operato di molte corporation, che usano disinvoltamente i dati personali ignorando qualsiasi requisito sulla riservatezza. Quando parlo di fiducia mi riferisco a un'etica della responsabilità che coinvolge tanto i singoli che il governo e le imprese e che se viene meno la fiducia tra il singolo e lo stato o tra un consumatore e un'impresa siamo in una brutta situazione. Ben vengano dunque delle leggi apposite se questo questo significa ripristinare quella fiducia.
Nel suo libro, lei scrive che il modello di business della Google ha dato impulso allo sviluppo della «economia della ricerca». O meglio: dell'«economia delle intenzioni». Può spiegare cosa intende?Non so se si possa parlare di una vera e propria «economia delle intenzioni. L'espressione che preferisco usare è «database delle intenzioni», cioè quell'enorme mole di dati sulle operazioni condotte su Internet. Sono ricerche dettate dai gusti individuali, da un particolare stile di vita, da passioni, interessi culturali, desideri, bisogni. Sono dati che non sono contenuti in un solo archivio. Su Internet ci sono tre, quattro siti che fanno la parte del leone: ovviamente Google, ma anche a Yahoo e Microsoft. Sono però imprese che contribuiscono al quella che viene chiamata «economia dei motori di ricerca». Ma al di là del suo uso economico, ciò che mi affascina è il fatto che si stia costituendo, in tempo reale, la storia della cultura umana, se con questa espressione intendiamo quella generica attività umana che è la comunicazione delle proprie intenzioni, stabilendo così relazioni sociali. Da questo punto di vista, il «database delle intenzioni» è un artefatto culturale che ha potenzialità stradordinarie: può essere usato a fin di bene o per obiettivi pessimi. Ma proprio questo potenziale doppio uso lo rende un oggetto affasciante.
Nel suo libro i venture capitalist sono descritti molto benevolmente....Prendiamo il caso YouTube recentemente acquisita da Google. All'inizio della sua avventura i due fondatori, Chad Hurley e Steve Chen, hanno ricevuto da venture capitalist 11,5 milioni di dollari. Con quell'investimento iniziale, hanno potuto progettare lo sviluppo di YouTube, al punto che è diventato il sito che ha oltre 20 milioni di visitatori. Ora è stato acquisito per 1,6 miliardi di dollari. Per gli investitori iniziali, i fondatori e i dipendenti è stato un buon affare.
Agli esordi Google considerava la proprietà intellettuale un ostacolo allo sviluppo scientifico e economico. In seguito, però, Brin e Page hanno usato proprio il copyright, i brevetti e il marchio per difendersi dalla concorrenza. Non crede che hanno lunga questa scelta non si ritorcerà contro Google, visto l'erosione del software proprietario da parte di quello «libero», sia che si tratti di programmi open source o di free software?Per tutte le imprese accade che, a un certo punto della loro storia, l'idealismo degli esordi lascia il passo al realismo. E Google non è certo un'eccezione. A Mountain View devono ormai proteggere gli azionisti. Google è diventato il motore di ricerca più famoso del web ben prima che fosse quotata in borsa. Faceva buoni affari, ma rimaneva sempre una società nata in un garage: buone idee, buon software, innovazione a go-go, ma era un'impresa vulnerabile. Da quando ha presentato una serie di servizi «aggiuntivi» all'iniziale motore di ricerca, rendendo pubblici i suoi progetti di diversificazione industriale, la strada della quotazione in borsa era già stata tracciata. Con l'arrivo a Wall Street, poi, la dimensione idealistica ha dovuto così fare i conti con chi aveva investito in borsa.
La quotazione di Google a Wall Street è già storia. Finora, Google ha vinto le battaglie seguendo la strada dell'innovazione. Recentemente, invece, sembra che sia tentata nel seguire le vecchie consuetudini: fusioni, acquisizione. Lei che ne pensa?Penso che Google continui ancora a puntare sull'innovazione. Ma la cronaca ci segnala che anche l'altra strada, quelle delle acquisizioni, è altrettanto perseguita.
Un visionario nelle maglie della rete
John Linwood Battelle è spesso qualificato come un «visionario» di Internet. Aggettivo che sicuramente ben si adatta alla sua biografia. Laureato in Antropolia nel 1987 in quel tempio, così almeno sostengono i neocon statunitensi, del radicalismo che è Berkeley, ha iniziato la sua attività di giornalista in Wired, la rivista culto degli anni Novanta per quanto riguarda il web. Poi, ha cominciato a tessere la sua rete, fondando la «Federate Media Publishing» e il sito Industry Standard specializzo in analisi delle strategie impenditoriali sul web. La sua attività non si è fermata certo all'attività giornalistica e Battelle diventa un agit prop del cosiddetto «web 2.0», intendendo con questo l'attuale Internet di massa e infrastruttura per fare affari. Nel 2005 ha infine pubblicato il «The Search: How Google and Its Rivals Rewrote the Rules of Business and Transformed our Culture», tradotto da Raffaello Cortina con il titolo «Google e gli altri. Come hanno trasformato la nostra cultura e riscrito le regole del business»
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