La merce e i conflitti, creativi al lavoro in rete

«MyCreativity». Ad Amsterdam studiosi, designer e informatici discutono di «creativity industry». Dalla precarietà alle esperienze di produzione alternativa, prove tecniche di una politica reticolare
26 novembre 2006
Brett Neilson
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

«Siamo tutti nati originali, ma la maggioranza di noi muore come copia». Suona così uno degli slogan riprodotti nel libro Creativity For All della designer olandese Mieke Gerritzen e distribuito ai partecipanti al convegno MyCreativity: Convention on International Creative Industries Research, organizzato da Geert Lovink (dell'Institute of Network Cultures della Hogeschool van Amsterdam) e Ned Rossiter (del Centre for Media Research dell'università di Ulster) che si è tenuto di recente ad Amsterdam. Con una grafica di forte impatto - e pieno di slogan come «Produzione della significanza = produzione del valore = produzione del conflitto» -, il libro di Gerritzen è solo uno dei prodotti nati in occasione del convegno. Un incontro preparato con un notevole sforzo organizzativo che ha fatto leva su una mailing list attivata con sei mesi di anciticipo e grazie alla quale sono state distribuite gratuitamente 10 mila copie del giornale The Creativity, ed è stato possibile accedere ai filmati degli interventi (www.netcultures.org). Ad Amsterdam è stato anche presentato Organised Networks: Media Theory, Creative Labour, New Institutions (Nai, euro 23,50) di Rossiter, un testo che, insieme agli scritti di Lovink, già noto in Italia, rappresenta il quadro teorico più coerente della filosofia e della politica di cui il convegno voleva farsi espressione.
Se in Italia la cosiddetta «industria creativa» è stata protagonista nell'ultimo decennio da un lato della retorica dell'imprenditorialismo berlusconiano e dall'altro della grande fuga del «made in Italy», molti altri paesi hanno seguito una politica più elaborata. Sopratutto il Regno Unito di Blair che nel 1997 ha introdotto le sue prime policies, un corpo di interventi per stimolare job creation e favorire la crescita economica attraverso la moltiplicazione dei cosiddetti creative clusters nelle città e «lo sfruttamento della proprietà intellettuale». Ma anche Australia, Nuova Zelanda, Olanda, Svezia, Taiwan e Singapore hanno avviato politiche governative a sostegno dell'innovazione. Background comune, in modo più o meno esplicito, sono le idee divulgate da Richard Florida nei suoi libri sulla «classe creativa» (La crescita della classe creativa e La classe creativa spicca il volo, editi da Mondadori e recensiti su queste pagine il 12 febbraio 2004 e il 24 novembre 2006). La buzzword dell'industria creativa è arrivata anche nelle metropoli cinesi: la sfida è passare dal «made in China» al «created in China». L'industria cinese ora cerca non solo di copiare la scarpa la cui foto digitale è arrivata a Shanghai pochi minuti dopo essere stata messa in vetrina in via della Spiga, ma di creare una scarpa della stessa qualità e che interpreta le tradizioni cinesi per un mercato globale.
Ma industria creativa significa anche capacità innovativa delle imprese capitalistiche. L'innovazione non riguarda solo la produzione di merci come scarpe, musica o web design, ma anche software, biotecnologie o perfino le più sofisticate armi militari (un'attività che coinvolge sempre di più la technology transfer dalle università). Il punto, però, non è se la creatività o l'innovazione coinvolgono merci eticamente discutibili, bensì che l'industria creativa produce merci con una loro indifferenza formale nonostante l'iniziativa innovativa che ha contribuito alla loro esistenza. È per questo che il gergo dell'innovazione o della creatività nel capitalismo postfordista è diventato una specie di codice per dire più dello stesso. Si tratta di un'azione innovativa che ha capacità di creare un'apertura politica. «Il conflitto non è una merce. La merce invece no, la merce è sopratutto conflitto», come recita uno slogan del gruppo «guerriglia marketing» (www.guerrigliamarketing.org).
MyCreativity è nato con l'intenzione di esplorare questo conflitto non dal punto di vista delle imprese o della policy ma da quello del creativo, cioè del soggetto senza il quale queste industrie non esisterebbero. Non si tratta solo dei conflitti che nascono dalla diffusa precarietà del lavoro creativo o dell'eccesso di passione che lega il creativo alle sue condizioni di sfruttamento, ma di quelli emergenti nei cosiddetti creative clusters delle metropoli. Che non favoriscono la crescita economica attraverso la proprietà intellettuale, ma attraverso il mercato immobiliare che prima si gonfia col crescere dell'attività creativa e poi «sfratta» il «creativo-precario» che non riesce più a pagare l'affitto. Ma il convegno ha avuto il pregio anche di evidenziare altri conflitti che hanno radici nella natura più intima del capitalismo post-fordista, come dimostra la reazione ostile del pubblico alla retorica del «dibattito aperto» e di «libera scelta di ogni creativo di partecipare o no al sistema del copyrigh» di un esponente della Wipo (World Intellectual Property Organization).
Ma se l'impostazione critica verso il concetto di industria creativa è stata il terreno comune dei partecipanti, obiettivo dichiarato degli organizzatori era il superamento dell'elaborazione fin qui prodotta, ad esempio dalla scuola di Francoforte contro la cosiddetta industria culturale o dai post-operaisti italiani contro il capitalismo cognitivo. Per questo è stato dedicato molto spazio all'analisi delle «pratiche creative alternative», cioè a quelle forme organizzative che si giostrano tra il rischio di cadere intrappolati nel sistema di public-private partnerships (tipico della governance nei paesi anglosassoni nell'ultimo decennio) e la gratuità del lavoro che qualifica le iniziative open source (almeno fino a quando sono inglobati da interessi privati). In questa ottica è significativa l'esperienza di Lovink e Rossiter come promotori di mailing lists come nettime e fibreculture, esperienza che hanno contribuito allo sviluppo di una politica reticolare tesa non al confronto tra verticalità e orizzontalità ma a rendere problematico questo confronto. Da qui la scoperta di modalità di organizzazioni non rappresentive al tempo stesso distribuite e decisionistiche. Per molti versi MyCreativity è stato un concentrato di questa politica reticolare, interessante più per la forma che per il contenuto. Un caso raro in cui al «collegamento» digitale è stata data l'opportunità di diventare relazione politica.

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