Il peer to peer? È reato. Parola di Rutelli
Qual è la differenza tra il precedente Ministro dei Beni e le Attività Culturali, l'azzurro Giuliano Urbani, e il titolare in carica Francesco Rutelli? Il primo parlava poco, ma quando prendeva la parola su questioni dirimenti come la proprietà intellettuale le ragioni delle imprese discografiche, cinematografiche, editoriali avevano trovato il loro difensore. Chi usava, e usa, la rete per condividere on-line l'intelligenza collettiva depositata nei server di Internet andava, secondo Giuliano Urbani, sottoposto a controllo, fino ad emanare un decreto che equipara il peer-to-peer a reato penale. Francesco Rutelli, invece, parla molto. Ma per quanto riguarda la proprietà intellettuale è in linea di continuità con il suo precedessore.
Nei giorni scorsi al titolare del Ministero dei Beni Culturali è pervenuta una petizione dell'associazione «Altroconsumo» in cui si chiede a Rutelli di rivedere la normativa italiana sul peer-to-peer. In particolare, questa associazione dei consumatori, forte delle oltre diecimila firme raccolte, proponeva il superamento della logica proibizionista del decreto Urbani che prevede sanzioni penali per chi si scambia file musicali, video e altro. La prima risposta l'ha avuta da Pietro Folena della Commissione Cultura, che ha espresso il suo consenso rispetto allo spirito della petizione. Da Rutelli invece una lettera di risposta che è tutto un programma.
Per il difensore del matrimonio tra il diavolo e l'acqua santa (leggi: imprese e consumatori), il diritto d'autore è sacro, come il matrimonio. Vanno stabilite regole, sostiene Rutelli nella risposta a «Altroconsumo», ma guai a mettere in discussione la sacralità della proprietà intellettuale. Il peer-to-peer deve dunque rimanere un reato, anche se Rutelli, per salvarsi l'anima, si rifà a una sentenza che è stata applicata a un processo che giudica un fatto precedente l'approvazione del decreto Urbani. Dunque, nessuna intenzione di modificare quella normativa. Dunque, continuità con i difensori delle industrie discografiche, cinematografiche. Con buona pace dei «consumatori».
Nella trascorsa e concitata campagna elettorale, l'Unione aveva mandato segnali di disponibilità verso le ragioni dell'universo variegato degli attivisti del cyberspazio. Sia chiaro: nessuna rivoluzione, ma adesione a quanto di innovativo si era manifestato a livello internazionale sulla proprietà intellettuale. Tradotto in termini semplici: accettazione dei principî del copyright, ma propensione per un sistema misto che metta sullo stesso piano prodotti open source o free. Con il conseguente abbandono della persecuzione poliziesca e penale di chi condivide saperi e conoscenza contro il regime della proprietà intellettuale. Insomma, un punto di vista «moderato», che faceva tuttavia ben sperare.
Di quella disponibilità se ne è persa traccia nell'operato del governo di Romano Prodi. Continua lo stillicidio di operazioni di polizia - postale, di guardia di finanza, mancano i carabinieri, ma presto anche loro si adegueranno, perché sono nei secoli fedeli - contro chi usa la rete come bene comune. È tempo che anche in Italia vada l'adagio argentino: «Que se vayan todos».
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