Telecom, dov'è il mercato? Una storia tutta italiana

Nessuno l'ha scalata in borsa quando costava poco, nessun industriale che voglia comprarla. Mentre gli americani prendono tempo si costruiscono ipotesi fuori dal mercato e la politica...
8 aprile 2007
Claudio Jampaglia
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Telecom Italia ovvero commedia italiana di poteri e palazzi in diversi atti, con un classico "fantasma" in scena, da tutti invocato ma che non compare mai: il mercato. Come in "Aspettando Godot", l'eterno assente è atteso e invocato sul ciglio della strada da due uomini che si lamentano di tutto, minacciano e si indignano, ma rimangono sempre lì, dipendenti luno dall'altro. Un po' come la politica e l'economia italiana. Da mesi su Telecom si è scatenata una ridda di polemiche, colpi di scena, lotte sulle pagine dei quotidiani e manovre nelle stanze dei poteri economici e politici, milanesi e romani, per decidere i destini di una delle più importanti aziende italiane, con la rete di telecomunicazioni nazionali e circa 80mila posti di lavoro. Ma cosa ci dice questa incredibile storia?

La concorrenza
di mercato non c'è
Nell'ideale paese del libero mercato Telecom sarebbe stata già scalata un paio di volte negli ultimi mesi. Il motivo è semplicissimo: costa poco. O meglio rispetto al prezzo di 3 euro per azione pagato da Tronchetti (indebitandosi) per controllarla e rispetto ai 2,82 euro offerti dalla cordata tex-mex di At&t e America Movil, l'altroieri in borsa si comprava a 2,423 euro/azione, nonostante una settimana di rialzi con il 19% dei titoli scambiati. Oggi con un investimento di 30 miliardi, teoricamente, si potrebbe conquistare l'82% della società e chi si fosse affrettato nei mesi scorsi l'avrebbe presa per molto meno. Invece nessuno ci ha provato, tanto meno gli americani, perché?
Primo perché non è facile e un rastrellamento scatenerebbe reazioni a catena, al rialzo, e l'obbligo di Offerta pubblica d'acquisto oltre il 30% del capitale; ma c'è un motivo più solido e vero. Perché basta acquisire una quota di Olimpia (nemmeno tutta) per controllare Telecom e allora perché andare sul mercato? Perché spendere di più se ci sono le società a monte della priamide di scatole cinesi a garantire un più conveniente acquisto fuori dalla Borsa? Anche questo, però, non è così facile. Perché oltre alla catena di controllo ci sono i patti di sindacato tra i soci, le catene di interessi e quelle "interessenze" che regolano la struttura feudale del mercato italiano. E' l'eredità di Cuccia, dell'equilibrio tra famiglie, aziende, banche perché nessuno possa mangiare nessuno, senza il vecchio burattinaio a tirare le fila. Così, tanto per fare un esempio, nemmeno l'offerta di At&t (ammesso che non sia un vettore di altri più complicati scenari) è davvero in campo finché non scade la prelazione che Generali e Mediobanca hanno in dote da Pirelli e Benetton, via patto di sindacato. Sarà per questo che Mediobanca studia cordate alternative, alleanze tra banche e Telecom estere per giocare un ruolo, ma blocca qualsiasi via in Borsa per le stesse banche e aziende che potrebbero cominciare a dimostrare sul mercato il loro interesse. Sarà per questo che Prodi ammicca dicendo che «sembra un'offerta più messicana che americana».
C'è un altro fatto che spiega quanto lo scenario e gli attori economici siano distanti dal mercato da cui dovrebbero essere guidati: il ruolo dei fondi pensione. Il 45% del capitale di Telecom è in mano a loro (italiani in maggioranza e stranieri). Nel ciclone di queste settimane, però, stanno zitti non tanto perché gli convenga, ma perché il gioco delle scatole, delle minoranze controllanti, del saccheggio dei patrimoni per scalate via patti e accordi comincia a non andargli più bene. Per niente. Telecom ha solide basi economiche, ha prospettive di risanamento e di crescita. Sarebbe un buon investimento, ma qualcuno ci crede?

Chi può comprare Telecom
Diversi player italiani sembrano scaldarsi a bordo campo in attesa dell'esito della verifica dei conti in corso di At&t. Aspettano in realtà, che Intesa-San Paolo scopre le sue carte nella partita per capire se davvero la mega-banca italiana supporterà gli americani con un prendere o lasciare per gli altri investitori italiani. Ma il punto è che tutti gli attori italiani al momento sono finanziari. A parte Mediaset che ha i soldi ma violerebbe le leggi sulla concentrazione nel settore Tlc, imprenditori italiani non se ne vedono all'orizzonte. Rimangono allora le Tlc straniere e più di tutte la spagnola Telefonica che in diversi stanno cercando di spingere in campo per garantire gli equilibri. Ma se entra in campo, Telefonica lo fa per comprare, punto e basta. È una public company, non può condividere modelli di governance così complicati e parasociali. Non gli è permesso dalla sua di governance. E non perché sia un modello, ma semplicemente perché per evitarli al suo interno si sono costruite delle regole. Al momento però gli europei non capiscono chi comanda. Banche italiane, banche d'affari, governo o Tronchetti? In Italia la politica mette dei blocchi al mercato? E dove sono gli "spiriti animali" della libera concorrenza, del mercato che tutto aggiusta e darwinisticamente compensa, richiamati in un paginone ieri sul Corriere da Alessandro Profumo di Unicredit? Dispersi. Sempre ieri Profumo ha detto il suo lapidario: «Da parte mia nessuna novità, zero assoluto». E come lui Mediobanca. Tutti in attesa di vedere le mosse di Passera e Intesa-San Paolo. Altro che jungla e vinca il più forte, siamo alla caduta di Bisanzio.

Regole, trasparenza e altre bazzecole
Se la malattia del capitalismo italiano, finito sotto gli strali dell'avvocato antitrust Guido Rossi e persino del premier ex-presidente Iri, Romano Prodi, è quella delle famiglie, dei patti, dei clan e degli aggiustamenti nei loro interessi, come invocare le regole? Chi può avere la forza di dare una bella girata a "lorsingori" in nome del mercato e della concorrenza? Il silenzio della Consob è davvero enorme in questi giorni. Osserva e vigila accigliata che non ci siano scalate mascherate sul mercato borsistico e non dice una parola sulla governance della sesta azienda per capitalizzazione della Borsa italiana e nemmeno sui diritti dei risparmiatori a sapere se pagheranno loro la buona uscita d'oro di Tronchetti e Pirelli dopo anni di mancati risultati, di ristrutturazioni annunciate e abbozzate, mentre si usavano gli utili per ripagare i debiti d'acquisizione. Le piramidi societarie, come quelle che da Pirelli, via Olimpia governa Telecom, hanno origine nell'atavica ricerca di ridurre i costi fiscali e gli obblighi delle controllanti di fronte al mercato. Così con il 66% di Olimpia, Pirelli controlla il 18% di Telecom ma agisce come se ne avesse il 51%. Impossibile in altri paesi, ancora più impossibile per "public company" come Telefonica ad esempio. Allora perchè non si è alzata una voce che chiedesse la fusione di Olimpia dentro Pirelli per ridurre la catena (e che la pagassero loro) o l'obbligo dell'Opa su Telecom visto che ne controllano la gestione di fatto? Risposta: non si fa in nome della sacralità del mercato. "Ma mi faccia il piacere", avrebbe detto Totò. Pirelli nomina il consiglio d'amministrazione e governa l'azienda di fatto, alla luce del sole, ma sempre con il 18%. E il mercato, tutto, ingoia il rospo del principe di turno.

Ma la politica
non fa le regole?
No, fa le cordate. Il vizio delle merchant bank a palazzo, dell'intendenza della classe politica a ogni gioco di preda e cacciatore nel risiko finanziario ormai è dilagato. Così il ministro delle Comunicazioni, Gentiloni, invoca la «prova d'orchestra» tra banche e imprese italiane per mantenere Telecom tricolore e rilanciare la rete. Bersani sembra lavorare a un piano industriale tout-court in nome del dicastero dello Sviluppo. E infine Mastella chiede l'intervento della Cassa depositi prestiti dove paga lo Stato e comandano le fondazioni capitanate dai banchieri "bianchi". Tutte idee legittime, per carità, ciascuno fa il suo mestiere. Ma qual è quello dei politici in questi casi? Dire la loro o fare le regole? Agire ipotesi o garantire rigorosamente che sia garantito l'interesse pubblico, quello sulla rete che rappresenta oggi il sistema nervoso del paese, quello degli investitori (anche e soprattutto i più piccoli), anche quello dell'interesse nazionale se volete, ma pubblico non via Intesa-San Paolo. L'esempio dell'intendenza della politica è proprio il destino della rete Telecom. Se in tutti i paesi maturi è considerata un bene strategico - pubblico in Germania e privato ma in mani nazionali negli Usa - in Italia anche su questo non si capisce bene dove si vada a parare. Prodi ha escluso ieri di poter riportare la rete in mani pubbliche e ha indicato la soluzione in una "società di garanzia di transito" che gestisca la rete e garantisca accesso universale, costi concorrenziali e sviluppo della stessa, sul modello inglese Open Reach. Privatizzare un monopolio blindandolo con regole di gestione è fatica sprecata e costosa. C'è una soluzione più semplice: un'azienda pubblica, gestita in maniera efficiente e senza sprechi, con la partecipazione di tutti gli operatori interessati al suo sviluppo e al suo uso. Si può fare, è questione di volontà politica. Basta non avere altri interessi. E non invocare il mercato a vanvera.

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