Sviluppo sostenibile in rete, è slow la terza via della scienza
Le tecnologie dell'informazione in prima linea per promuovere lo sviluppo, e non solo quello della Silicon Valley o dei paesi più avanzati. Anche i paesi più poveri beneficiano delle nuove tecnologie: se ne parlerà a Roma dal 24 al 27 settembre, presso la Fao, nel corso della prima conferenza Web2forDev, «il web partecipativo per lo sviluppo» (http://www.web2fordev.net). Si parlerà di come «fare rete, collaborare e scambiarsi conoscenze in agricoltura, sviluppo rurale e gestione delle risorse naturali».
Internet, la rete costruita dal basso grazie ai contenuti di tutti gli utenti, può aiutare le Ong e i paesi in via di sviluppo a lottare contro la povertà? Be', tanto per cominciare, le aree tematiche della conferenza sono state decise da 500 persone - provenienti soprattutto dal sud del mondo e attive nella cooperazione allo sviluppo - che hanno espresso le loro idee in un sondaggio online. E' questa la forza della rete: la partecipazione. Se vogliamo cercare risposte affermative, però, sarà a patto di non glorificare a tutti i costi le tecnologie più trendy e di chiedersi sempre quale modello di sviluppo sia legato a una certo tipo di scienza o a una determinata innovazione tecnologica.
A scostare il velo del determinismo della neutralità tecno-scientifica - più scienza e più tecnologia sempre uguale sviluppo e benessere - ci pensa per esempio SciDev, il network dedicato proprio a scienza e sviluppo (http://www.scidev.net). In un editoriale di pochi giorni fa, Melissa Leach and Ian Scoones, autori del libro The Slow Race: Making technology work for the poor ( La gara lenta: fare in modo che la tecnologia serva ai poveri ) sottolineano come per far sì che scienza e tecnologia incontrino i bisogni dei poveri sia indispensabile un forte coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali. In gioco ci sarebbero tre tipi di scienza. La prima è la scienza globale, quella delle università e dei laboratori dei paesi ricchi, il cui avanzamento dovrebbe causare uno sviluppo economico di cui beneficeranno indirettamente anche i più poveri, indipendentemente dalla sua distribuzione e dei suoi scopi diretti.
La seconda è una scienza che va alla ricerca di scoperte con un effetto immediato sulla povertà. E' l'approccio dei filantropi "à là" Bill Gates o del progetto One Laptop Per Child del Mit di Boston, che vuole dare ai bambini dei paesi poveri un personal computer low cost (http://laptop.org). Il terzo approccio è quello che gli autori chiamano «slow», lento. Che «consideri la scienza e la tecnologia come parte di un processo di sviluppo dal basso e partecipativo, nel quale i cittadini occupano il centro della scena» e che sia legato al contesto locale. Una tecnologia che si ponga anche il problema dell'accesso dei cittadini ai suoi prodotti e al controllo del suo sviluppo. Non calata dall'alto, insomma, ma decisa, guidata e - perché no? - fatta dai cittadini.
Gli esempi già in atto sono diversi. Prima di entrare nel ciberspazio, che conta decine di iniziative di partecipazione alle scelte tecnologiche, si può dare un'occhiata a quello che accade nel mondo reale. Molto banalmente, il telefono cellulare può essere un notevole motore di sviluppo: un caso piuttosto noto è quello dei pescatori dello stato del Kerala, in India. Una volta dotati di telefonino, hanno potuto organizzare meglio il loro lavoro e le loro vendite, sbarcando ogni giorno i carichi laddove c'è più richiesta di pesce e scambiandosi informazioni sulla pescosità e sulle condizioni meteorologiche: un successo economico, per una categoria che spesso rasenta la povertà estrema e che è troppo soggetta alle intemperanze quotidiane del clima. Ma sulle onde radio viaggiano anche i dati delle reti wi-fi comunitarie, che portano Internet a chilometri di distanza con relativamente pochi dollari di spesa in attrezzature, come accade in diverse zone dell'Africa e dell'Asia.
La rete dunque, che sta diventando sempre più importante anche per lo sviluppo. Il web partecipativo comincia a riempirsi di progetti interessanti, come quelli di microcredito (prestiti che partono da 25$) gestiti tramite il web 2.0: come Kiva (http://www.kiva.org), un servizio online dal quale chiunque può prestare piccole somme, per esempio a un contadino keniota che deve comprare degli attrezzi. La lezione del Nobel per la pace Muhammad Yunus, unita alla trasparenza e alla diffusione globale della rete. Tanto per fare un altro esempio, c'è Wepoco (http://www.wepoco.com), un aggregatore che spedisce informazioni meteo via cellulare ai contadini etiopi. E per Internet passa anche la scienza, che si fa con le informazioni e i dati, e non esiste senza il confronto con la comunità globale degli scienziati. Per questo il movimento dell'open access, cioè delle riviste e degli archivi che mettono a disposizione di chiunque, gratis, le ricerche scientifiche, è un ingrediente fondamentale della diffusione dei saperi scientifici nei paesi in via di sviluppo. Spesso le università africane, per esempio, non possono pagare i costosissimi abbonamenti delle riviste scientifiche "classiche". Ma grazie alla rete, hanno accesso a quella che è ormai una massa critica di pubblicazioni online gratuite. Le più note sono quelle di Public library of science, che da poco ha lanciato una rivista online che si occupa di malattie tropicali dimenticate come lebbra o malattia del sonno, che flagellano i paesi poveri ma non interessano alle multinazionali del farmaco (http://www.plosntds.org). Cui si aggiungono iniziative come Online access to research in the environment, nata dal programma ambientale dell'Onu, che mette a disposizione degli scienziati dei paesi più poveri di Africa, Asia e America latina mille riviste scientifiche di biotecnologia, botanica, cambiamenti climatici, energia, chimica, ecologia, economia ambientale.
Una volta di più, il flusso di informazioni liberamente accessibili permette a chiunque di appropriarsene, scegliendo come rielaborarle e utilizzarle. Perché non è scontato che la scienza proveniente dal mondo industrializzato sia in grado di rispondere alle domande provenienti dai paesi più poveri. Il caso degli Ogm è esemplificativo: gli ultimi a volerli, nonostante le promesse delle multinazionali dell'agrobusiness, sono proprio i movimenti dei contadini del Sud. Che spesso preferiscono un'agronomia decisa da loro, nei campi, e non nel chiuso di laboratori distanti migliaia di chilometri dalla terra che accoglierà i semi selezionati. La selezione partecipativa dei semi, dunque, incorporerà i saperi locali (la cosiddetta "indigenous knowledge") e si porrà il problema di chiedere agli agronomi e ai contadini dei paesi in via di sviluppo quali sono le loro esigenze, magari per formarli ma senza imporre loro soluzioni pensate per altri contesti sociali, agricoli e scientifici.
Siamo tornati all'apertura alla partecipazione dei diretti interessati, i cittadini (che siano scienziati o meno). Sono loro, infatti, a dover decidere quale scienza, quali tecnologie possono adattarsi alle loro necessità e al contesto in cui vivono. Uno dei problemi più annosi dei paesi poveri: la democrazia e il rapporto tra cittadino e istituzioni. Su SciDev, Leach e Scoones ricordano che «è vitale che siano garantite le condizioni istituzionali e pratiche per poter correre la lenta gara» dello sviluppo tramite i mezzi della scienza. Una questione politica.
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