Google, la Rete che fa Paura
«Chi ha paura di Google?», recita la copertina dell' Economist in edicola lo scorso primo settembre. Tutti, risponde il prestigioso settimanale in un articolo di fondo non firmato: la crescita della società di Mountain View è stata troppo impetuosa (da esperimento di due studenti californiani a moloch della Net Economy in cinque anni) per non pestare i piedi a un sacco di gente. I network televisivi, gli editori e le catene di giornali la accusano di «rubare» i loro contenuti; le telecom di viaggiare «a sbafo» sulle loro reti; i radical di aiutare la censura cinese; i conservatori di non filtrare i video osceni o violenti. Ma il vero incubo riguarda l' enorme quantità di informazioni che il motore di ricerca (anche grazie a una valanga di altri servizi, come email, mappe, agende, news, video, eccetera) raccoglie sui propri utenti. È giusto fidarsi? Vale la pena di rinunciare alla privacy in cambio di tutte queste comodità? I rischi non mancano, risponde l' Economist; ma non sono in fondo molto diversi da quelli che corriamo fidandoci di una qualsiasi banca: cos' altro è Google, infatti, se non una specie di immane banca delle informazioni? Un paragone che farebbe rizzare i capelli in testa agli «hacktivist» (come si definiscono i militanti controculturali in Rete) del gruppo Ippolita. Sia perché, da libertari quali sono, è probabile che condividano lo spirito del vecchio detto anarchico, secondo cui fondare una banca è colpa più grave che rapinarla, sia perché hanno da poco dato alle stampe un libro in cui spiegano le ragioni per cui è assolutamente meglio non fidarsi. Il motivo più importante per tenere gli occhi bene aperti, scrivono gli autori di The Dark Side of Google (uscito in Italia con il titolo Luci e ombre di Google, Feltrinelli, pp. 172, 9,5), riguarda il fatto che l' aura di affidabilità che circonda Google si fonda su una mistificazione, e cioè sull' idea in base alla quale l' ordine gerarchico con cui vengono presentati i risultati delle ricerche incarnerebbe un principio «democratico». Visto che gli algoritmi di ricerca utilizzati dal motore, si dice, mettono al primo posto le pagine web più «votate» dagli utenti di Internet, cioè quelle che hanno ottenuto il più elevato numero di link da parte di altre pagine, c' è un' ottima probabilità che siano le pagine che contengono le informazioni più attendibili e interessanti in merito all' argomento sul quale si è avviata una determinata ricerca. Detto altrimenti: una volta si diceva «è vero perché l' ha detto la tv», oggi si dice «è vero perché l' ho trovato su Google», una fede resa inscalfibile dal peso del «voto popolare». Ma la popolarità, obiettano gli autori del libro, non coincide con la qualità. Se è vero che gli algoritmi di Google funzionano come un sondaggio d' opinione online, ciò significa 1) che i risultati non rispecchiano alcuna «verità», 2) che incarnano una sorta di dittatura della maggioranza più che un principio democratico. La seconda obiezione è che le «elezioni» sono truccate, nel senso che i link che arrivano da pagine che a loro volta ricevono un numero elevato di link «pesano» più degli altri. Il modello applicato è cioè simile a quello su cui si fonda la reputazione accademica: quanto più famoso l' autore che cita, tanto maggiore il valore della citazione. Anche da questo punto di vista, quindi, non prevalgono le preoccupazioni di verità e oggettività, bensì quelle della misurazione del «capitale reputazionale» accumulato dai vari siti. Infine l' inganno più insidioso: l' utente ingenuo immagina che chiunque effettui una determinata ricerca ottenga gli stessi risultati, ma le cose non funzionano così: i risultati sono «filtrati», sia in base alle aree geografiche da cui partono le richieste, sia in base alle ricerche che quel determinato utente ha effettuato in precedenza (memorizzate a sua insaputa). I risultati sono quindi «personalizzati» in modo da fornire a ognuno la risposta che meglio si adatta al suo «profilo» sociale, culturale e «caratteriale». Google vuole costruire una banca delle informazioni - per usare la metafora dell' Economist - proprio per poter effettuare una «personalizzazione di massa» che offra a tutti risposte «su misura». Che male c' è? In primo luogo, risponde il gruppo Ippolita, così cresce l' assuefazione a cedere privacy in cambio di comodità; inoltre l' utente si «impigrisce» delegando tutto al software e perdendo la pazienza, la volontà e la competenza necessarie a cercare contenuti «originali».
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