Download e profitti, la lezione Radiohead
«Un tempo l'industria lavorava per far conoscere i giovani artisti, oggi invece le major tendono a eliminare chi non ha un riscontro commerciale immediato. Poco importa il talento, gli artisti vengono continuamente mortificati, umiliati». Poi, si può anche discutere a lungo. Ma sta in queste parole di Tom Yorke, il leader dei Radiohead intervistato qualche giorno fa da Repubblica , il quadro desolato e desolante della musica mentre corre l'anno 2007. Sì, si può discutere di quanto il loro ultimo lavoro, In Rainbows , abbia avuto successo. O meglio, di quanto abbia avuto successo l'iniziativa della band inglese di metterlo a disposizione online e di farlo scaricare con un'offerta volontaria che poteva essere anche di 0 euro. Loro, i Radiohead, parlano di una buona metà del milione e 200mila di copie scaricate che sarebbero state pagate; i dati di chi si è occupato di fare ricerche (come i siti comScore o Techcrunch ) parlano invece di un abbondante 62% di downloader che all'esortazione a fare il loro comodo (it's up to you) hanno preferito tenere cucite le tasche.
Ma non è questo il punto. Si potrebbe parlare, e già sarebbe più interessante, delle reazioni dei colleghi dei Radiohead a questa iniziativa. Da Prince che si arroga il diritto di ritirare dal web tutte le sue foto per guadagnarci con i diritti (operazione che probabilmente solo lui sa come poter realizzare) ai Nine Inch Nails che sembrerebbero voler seguire le orme del gruppo inglese. A livelli minori, si distinguono le piccole band che nei forum online si distinguono in due linee di pensiero: c'è chi spera che i Radiohead possano diventare degli apripista per ridimensionare il potere e il ruolo delle major discografiche - cosicché anche chi non si chiama Tom Yorke potrà avere delle possibilità - e c'è chi fa notare che proprio il fatto di chiamarsi Tom Yorke, e solo quello, dà la possibilità di potersi permettere il lusso di regalare musica. Poi ci sono le reazioni dei big della produzione. C'è un Tim Dellow, co-fondatore della Trasgressive Records, raggiante: «E' un risultato deprimente e questo dato (i 3/5 di download gratuiti, ndr ) scoraggerà sicuramente le band più piccole a riproporre un simile modello di business in futuro» e c'è un Enzo Mazza, presidente della Fimi, che proprio su queste pagine presagiva che comunque sarebbe andato l'esperimento-Radiohead, ad oggi fare soldi con la musica senza avere alle spalle una casa discografica. Meno sicuro era invece il boss della Emi, Ronn Werre: «Se un gruppo di fama internazionale come i Radiohead si produce l'album da solo, allora non so più a cosa serve il nostro lavoro».
Insomma, se proprio volessimo trovare un vincitore in questa vicenda potremmo indicare il peer-to-peer. Succeda quel che succeda, il circuito "illegale" di condivisione di file in rete, completamente gratuito, è ad oggi lo strumento più utilizzato dagli amanti della musica. Ma siamo sempre sul piano meramente economico e, l'abbiamo detto, non è questo il punto. Il punto è che lo scopo dei Radiohead era quello di «dimostrare che non c'è bisogno di tutte queste infrastrutture per far arrivare la musica alla gente». Perché le "infrastrutture" sono arrivate a decidere pure quale musica abbia diritto ad esistere e quale no. Non è scritto da nessuna parte che un cd debba costare 40 euro e che chi più vende sopravvive mentre chi sperimenta è destinato all'anonimato perenne. Lo sostengono i consumatori di musica, lo sostengono gli artisti, o almeno una parte di loro.
Qualcosa si sta muovendo all'orizzonte. Lo sta facendo anche la politica, in Olanda soprattutto, ma primi passi si stanno facendo pure in Italia dove si sta discutendo una nuova proposta sulle regole del copyright. Chiedere il copyleft magari è ancora chiedere la luna, ma non sembra più una meta irraggiungibile. Nel frattempo, gli store digitali stanno proliferando e continuano a garantire una migliore qualità audio dei file dei p2p e un prezzo inferiore dei cd. Potrebbe essere una soluzione, ma riguarda sempre e soltanto il prodotto finale. Qui si sta parlando del diritto a fare musica. Del diritto ad esprimersi, in fin dei conti. Quindi, ancora una volta: bravi Radiohead.
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