E’ l’epoca del digitale che senso ha il diritto d’autore?
La grande impalcatura a difesa del diritto d'autore non regge più. Troppe cose sono cambiate da quando in Inghilterra nel 1710 venne promulgato lo Statuto di Anna, con il quale veniva stabilita un'esclusiva per la stampa dei testi attribuita ad autori o cessionari di quel diritto, rinnovabile di 14 anni. La normativa internazionale da allora ad oggi si è evoluta, ampliando e allungando la tutela delle opere fino a cinquanta, settanta, novant'anni, e inasprendo le pene, pecuniarie e detentive, per la violazione dei diritti economici e morali dei titolari.
Ma da allora ad oggi sono state tali e tante le evoluzioni della tecnologia che, per quanto il diritto cerchi di distinguere le norme dai mezzi e dagli strumenti per evaderle o farle rispettare, non è più possibile applicare quel modello alla modernità.
Per tre ordini di motivi: la rivoluzione informatica ha messo nelle mani di ciascuno potenti media digitali, i personal media, con i quali è possibile registrare, manipolare e veicolare qualsiasi aspetto della realtà e dell'esperienza; gli strumenti e le infrastrutture di comunicazione sono diventati digitali, ubiqui, spesso gratuiti; è cresciuta l'esposizione degli individui a questi strumenti e insieme l'attitudine al loro uso creativo e collettivo. Che oggi viene anche insegnato a scuola e nelle Università.
La flessibilità, volatilità e permanenza del digitale sono tali che chiunque può manipolare un'opera digitalizzata e, grazie ad Internet, spostarla con un clik da un lato all'altro del globo, conservarla indefinitamente in numeri incalcolabili, in differenti formati e differenti supporti, anche sfruttando la memoria lunga dei motori di ricerca come Google. La disponibilità di mezzi per la copia di film, musica e testi, presenti in qualsiasi casa, ufficio, biblioteca, centro sociale, rende difficile se non impossibile controllarne gli abusi e l'unico freno alla pirateria rimane una forte opera di contrasto e repressione. Se non bastasse, a scompigliare lo scenario tradizionale, interviene il fatto che nel momento in cui ottengo la copia digitale di un'opera non ne privo l'autore, e così salta anche il concetto di possesso, ovvero di proprietà e disponibilità, che sono alla base dell'idea stessa del furto dell'opera d'ingegno.
Internet e il digitale hanno profondamente modificato i concetti di autore, di opera, di creatività. Perciò il loro utilizzo non è indifferente rispetto alle norme che tutelano il diritto d'autore. Ma le innovazioni tecnologiche in mano agli adolescenti e l'industria illegale della contraffazione digitale mettono in crisi l'industria creativa e dei contenuti, che dà lavoro a migliaia di persone, per la diminuzione degli introiti determinata dall'impossibilità di riscuotere i proventi di questo privilegio regolato dallo Stato, e pertanto l'industria cerca soluzioni a quella che considera la più formidabile minaccia dai tempi di Gutenberg: la duplicazione illegale di opere coperte da diritto d'autore.
I trattati Wipo, il Dmca, l'Eucd, sono leggi emanate proprio in risposta ai timori manifestati dai titolari del copyright nei confronti del cyberspace.
Le tecnologie di firewalling, di packet filtering, di monitoraggio e profilazione degli utenti, la tecnologia crittografica dei Drm applicata alle opere digitali e il trusted computing sono altrettante risposte tecnologiche finora mirate a limitare, se non a impedire, l'uso illegale delle opere digitali. Ma oltre all'estrema opposizione che determinano, poiché limitano le stesse utilizzazioni libere garantite dalle leggi, può rivelarsi una battaglia sterile fintanto che le organizzazioni di categoria e gli stati non individueranno un adeguato equilibrio fra la tutela delle opere e il loro accesso. Smettendo di sparare nel mucchio e di creare una cultura del sospetto come ha fatto Sarkozy con la commissione Olivennes, e interrogandosi sulle ragioni profonde delle violazioni e sui motivi reali dei mancati proventi, non ultimi la ciclicità dei mercati, il cambiamento dei gusti del pubblico, la scarsa qualità delle opere, i loro costi elevati, la concorrenza fra sistemi di intrattenimento, la mancanza di tempo e di denaro dei fruitori.
Intanto è utile chiarire una cosa: la pirateria digitale è per definizione un comportamento clandestino che riaffiora solo di fronte all'attività repressiva, e rimane sempre la punta di un iceberg mostruoso impossibile da quantificare con esattezza. Ma non è possibile contrastare la pirateria se non ci capisce come prospera. Un esempio per tutti. Uno studio pubblicato nel settembre 2003 da AT&_amp;T Labs risulta che il 77% dei film illegali diffusi sulle reti di file sharing proviene dal personale assunto all'interno dell'industria cinematografica americana. Per lo più il master del film viene copiato in fase di post-produzione, quando almeno un centinaio di addetti vi hanno accesso. Un'altra strada seguita è quella di "piratare" le copie di presentazione del film, distribuite per una cerchia ristretta di spettatori che devono valutarlo prima dell'uscita nelle sale. E' solo dopo aver considerato questo che che possiamo considerare il danno fatto dagli utenti che eludono i dispositivi di sicurezza, copiano e vedono un film non pagato.
L'altro fattore che influenza la fruzione delle opere e dovrebbe renderci cauti nel giudizio è l'assottigliarsi del confine fra tempo di vita e tempo di lavoro di una società di precari, che modifica profondamente il comportamento dei fruitori delle opere. E' vero infatti secondo un ricerca del 2006 di Anica-Doxa e Mibac, che si registra nel complesso una flessione della frequenza al cinema, equamente distribuita su tutto il territorio italiano, pari al 58-60% del campione. Ma le cause sono molte e diverse: dalla mancanza di tempo libero (per il 28%), agli impegni familiari e di lavoro (per il 21%), fino alla possibilità di vedere film in televisione o vhs/dvd (per il 26%) e all'aumento del prezzo dei biglietti (per il 12%). La preferenza per vhs o dvd è motivata, in generale dalla comodità d'uso: la fruizione domestica risulta più versatile nonché adattabile a problemi legati al tempo e allo spazio, inoltre dà la possibilità di organizzare visioni collettive, contenendo i costi.
Ulteriore elemento del cambiamento della dieta mediale è poi la diffusione di una cultura del riuso che attinge a ciò che è disponibile per ricombinarlo in forme sempre nuove, spesso senza sapere che utilizzare una melodia protetta per il proprio videoblog richiede un'autorizzazione e un compenso agli autori. Ma accade anche che moltissimi realizzano, usano e si scambiano software, musica e film tutelati da licenze alternative al copyright di "tutti i diritti riservati", creando un proprio circuito di produzione e di consumo come è accaduto con le Creative Commons.
Perciò per ripensare complessivamente il rapporto fra le tutele previste dall'ordinamento giuridico italiano e l'evoluzione tecnologica e dei costumi circa l'utilizzo, la creazione, la diffusione e la commercializzazione delle opere d'ingegno in Italia, il 18 dicembre la commissione per la riforma del diritto d'autore e dei diritti connessi guidata da Alberto Maria Gambino presenterà al ministro Rutelli una serie di proposte pensate per trovare un punto d'equilibrio fra l'anarchia e il controllo che caratterizzano le diverse pratiche nella gestione del diritto d'autore, fra queste le licenze flessibili creative commons, insieme ad altre interessanti proposte. Nel frattempo comunque non mancano le proposte radicali di ripensamento della gestione della cosiddetta proprietà intellettuale a livello mondiale. Un'associazione indiana, IT for Change, è giunta al secondo Internet Governance Forum di Rio de Janeiro con una proposta provocatoria: creare un indirizzo apposito per i contenuti di pubblico dominio. Qualcosa come "www.benicomuni.pd".
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