Musiche da scaricare. I tribunali affrontano il nodo dei sistemi peer to peer
La rivolta degli smanettoni
Negli Usa una serie di leggi stanno cercando di limitare «il diritto» di scaricare musica gratuitamente dalla rete. Una sentenza, per la prima volta, dà ragione al popolo di Internet. L'esempio di Napster è seguito da molti altri siti musicali
7 gennaio 2004
Sara Menafra
Fonte: Il Manifesto - 07 Gennaio 2004
Potrebbe essere capitato a ciascuno di noi. Finire davanti
ad una corte di appello, in questo caso quella del Distretto della Columbia, perché
accusati di aver scaricato gratuitamente musica coperta da copyright tramite internet.
In Italia a scambiarsi attraverso la rete brani musicali di ogni epoca e genere,
film e videoclip, sono ormai migliaia di persone. Periodicamente la guardia di
finanza fa una retata telematica e ne multa alcune decine. Ma la mania di scambiarsi
file di ogni genere attraverso sistemi «peer to peer» (punto a punto) anonimamente
e gratuitamente continua a dilagare ed ha già rivoluzionato usi e costumi degli
utenti della rete, tanto che è stato calcolato che solo il 2% degli mp3 musicali
registrati sui pc di tutto il mondo sono legali e non sono stati scaricati da
programmi come Napster, Win Mx, Kazaa o simili.
E' per questo che la sentenza della corte di appello del Columbia District, pronunciata lo scorso 19 dicembre, passata un po' in sordina almeno dalle nostre parti, rischia, come spesso è accaduto per le altre decisioni in ambito telematico partite dagli Stati uniti, di influenzare il quarto del pianeta connesso al web. «Non siamo insensibili alle richieste della Riaa (il corrispettivo della Federazione industria musicale italiana n.d.r.) riguardo le ampie violazioni dei diritti d'autore dei suoi membri, o al bisogno di strumenti legali per proteggere questi diritti. Non è nei poteri della corte, però, riscrivere le leggi sul copyright in modo da renderle adeguate ad una nuova e non prevista architettura di internet, a prescindere da quanto questo sviluppo della rete abbia danneggiato l'industria musicale», hanno scritto i giudici in una delle prime sentenze di un tribunale americano ad aver dato ragione agli utenti piuttosto che alle lobby musicali.
Ma per capire sul serio quanto conta questa sentenza bisogna fare un passo indietro. La vicenda è cominciata nell'estate del 2002, quando la Riaa, la potente lobby delle industrie discografiche americane ha deciso di chiedere l'elenco dei «log» a Verizon, un importante internet provider americano. Attraverso questi «log», che altro non sono che una sorta di registro telematico che registra alcuni dati degli utenti connessi alla rete, sarebbe stato possibile ricavare i nomi degli utenti che si erano collegati a Kazaa, il più diffuso tra i sistemi peer to peer americani.
Il documento inviato dalla Riaa a Verizon era una «subpoena», termine americano per definire una richiesta fatta sì dalla società, ma firmata da un giudice. In calce alla domanda la Riaa spiegava che la richiesta era basata sul Digital millenium act, la legge approvata nel 1998 che sanciva che i provider non potessero essere ritenuti responsabili dei comportamenti dei loro clienti e contemporaneamente chiedeva loro di rivelare ai detentori di diritti l'identità di chi avesse commesso un reato ai loro danni.
La subpoena permetteva alla Riaa di avere l'elenco degli «scaricatori» abusivi e il numero di brani rubati senza gli oneri di una causa in tribunale. Una volta avuto l'elenco non faceva altro che scrivere a ciascun abusivo proponendo una conciliazione: «Sappiamo chi sei e quanti brani hai scaricato gratuitamente - diceva in sostanza la lettera - Paga subito la cifra forfettaria che ti proponiamo e noi in cambio non ti trascineremo davanti a un tribunale».
Quando durante l'estate del 2002 la prima richiesta è arrivata alla Verizon, però, quest'ultima si è inaspettatamente rifiutata di collaborare, spiegando di avere il diritto/dovere di tutelare la privacy dei propri clienti. Ed è così che è partita la lunga battaglia legale che si è conclusa a metà dicembre con una sentenza arrivata un po' fuori tempo massimo. La decisione della corte di appello del District of Columbia, infatti, è giunta dopo che i precedenti tribunali avevano già costretto Verizon a fornire un elenco di ben 382 clienti. Insomma, se è vero che questo tribunale per la prima volta ha dato ragione al popolo degli smanettoni è altrettanto vero che la sua opinione peserà sulle future azioni legali della lobby delle case discografiche, ma non su quelle su cui l'America ha discusso per tutto lo scorso anno.
Era il 24 Aprile quando il giudice John Bates decideva di dare a Verizon quattordici giorni di tempo per consegnare la prima lista di nomi sostenendo che il riferimento al Digital millenium act del 1998 era perfettamente corretto e quindi applicabile. Il provider è stata quindi costretto a consegnare alla Riaa 382 nomi di persone che hanno scaricato o diffuso musica attraverso Kazaa. Alla fine della causa, cioè al momento della sentenza del 19 dicembre la Riaa sarà riuscita a portare a casa 220 conciliazioni per una media di 3.000 dollari ciascuna. La maggior parte degli utenti contattati ha pagato appena ricevuta la prima richiesta, senza neppure aspettare l'effettivo avvio di una causa legale. A spingerli è stata ovviamente la paura di perdere una volta arrivati in tribunale. La legge americana, infatti, prevede che le multe possano arrivare fino a 15.000 dollari per violazioni particolarmente gravi. I primi a pagare, in Aprile, sono stati quattro studenti universitari che hanno accettato di pagare risarcimenti tra i 12.000 e i 17.000 dollari.
Alla lettura della sentenza del 19 dicembre che sancisce che i subpoena inviati agli internet provider non sono validi e che quindi i log ottenuti tramite questo sistema non possono poi essere utilizzati per alcuna causa penale il presidente della Riaa Cary Sherman ha commentato: «Questa decisione non è coerente con l'opinione espressa dal Congresso e le decisioni della corte distrettuale. Sfortunatamente significa che non potremo più avvertire coloro che condividono file illegalmente prima di avviare una causa contro di loro. Verizon è l'unica responsabile di una nuova pratica che sarà particolarmente poco sensibile agli interessi degli utenti». La realtà, però, è che con questa sentenza la lobby discografica ha perso un sistema rapido ed efficace per spillare soldi al popolo della rete.
E' per questo che la sentenza della corte di appello del Columbia District, pronunciata lo scorso 19 dicembre, passata un po' in sordina almeno dalle nostre parti, rischia, come spesso è accaduto per le altre decisioni in ambito telematico partite dagli Stati uniti, di influenzare il quarto del pianeta connesso al web. «Non siamo insensibili alle richieste della Riaa (il corrispettivo della Federazione industria musicale italiana n.d.r.) riguardo le ampie violazioni dei diritti d'autore dei suoi membri, o al bisogno di strumenti legali per proteggere questi diritti. Non è nei poteri della corte, però, riscrivere le leggi sul copyright in modo da renderle adeguate ad una nuova e non prevista architettura di internet, a prescindere da quanto questo sviluppo della rete abbia danneggiato l'industria musicale», hanno scritto i giudici in una delle prime sentenze di un tribunale americano ad aver dato ragione agli utenti piuttosto che alle lobby musicali.
Ma per capire sul serio quanto conta questa sentenza bisogna fare un passo indietro. La vicenda è cominciata nell'estate del 2002, quando la Riaa, la potente lobby delle industrie discografiche americane ha deciso di chiedere l'elenco dei «log» a Verizon, un importante internet provider americano. Attraverso questi «log», che altro non sono che una sorta di registro telematico che registra alcuni dati degli utenti connessi alla rete, sarebbe stato possibile ricavare i nomi degli utenti che si erano collegati a Kazaa, il più diffuso tra i sistemi peer to peer americani.
Il documento inviato dalla Riaa a Verizon era una «subpoena», termine americano per definire una richiesta fatta sì dalla società, ma firmata da un giudice. In calce alla domanda la Riaa spiegava che la richiesta era basata sul Digital millenium act, la legge approvata nel 1998 che sanciva che i provider non potessero essere ritenuti responsabili dei comportamenti dei loro clienti e contemporaneamente chiedeva loro di rivelare ai detentori di diritti l'identità di chi avesse commesso un reato ai loro danni.
La subpoena permetteva alla Riaa di avere l'elenco degli «scaricatori» abusivi e il numero di brani rubati senza gli oneri di una causa in tribunale. Una volta avuto l'elenco non faceva altro che scrivere a ciascun abusivo proponendo una conciliazione: «Sappiamo chi sei e quanti brani hai scaricato gratuitamente - diceva in sostanza la lettera - Paga subito la cifra forfettaria che ti proponiamo e noi in cambio non ti trascineremo davanti a un tribunale».
Quando durante l'estate del 2002 la prima richiesta è arrivata alla Verizon, però, quest'ultima si è inaspettatamente rifiutata di collaborare, spiegando di avere il diritto/dovere di tutelare la privacy dei propri clienti. Ed è così che è partita la lunga battaglia legale che si è conclusa a metà dicembre con una sentenza arrivata un po' fuori tempo massimo. La decisione della corte di appello del District of Columbia, infatti, è giunta dopo che i precedenti tribunali avevano già costretto Verizon a fornire un elenco di ben 382 clienti. Insomma, se è vero che questo tribunale per la prima volta ha dato ragione al popolo degli smanettoni è altrettanto vero che la sua opinione peserà sulle future azioni legali della lobby delle case discografiche, ma non su quelle su cui l'America ha discusso per tutto lo scorso anno.
Era il 24 Aprile quando il giudice John Bates decideva di dare a Verizon quattordici giorni di tempo per consegnare la prima lista di nomi sostenendo che il riferimento al Digital millenium act del 1998 era perfettamente corretto e quindi applicabile. Il provider è stata quindi costretto a consegnare alla Riaa 382 nomi di persone che hanno scaricato o diffuso musica attraverso Kazaa. Alla fine della causa, cioè al momento della sentenza del 19 dicembre la Riaa sarà riuscita a portare a casa 220 conciliazioni per una media di 3.000 dollari ciascuna. La maggior parte degli utenti contattati ha pagato appena ricevuta la prima richiesta, senza neppure aspettare l'effettivo avvio di una causa legale. A spingerli è stata ovviamente la paura di perdere una volta arrivati in tribunale. La legge americana, infatti, prevede che le multe possano arrivare fino a 15.000 dollari per violazioni particolarmente gravi. I primi a pagare, in Aprile, sono stati quattro studenti universitari che hanno accettato di pagare risarcimenti tra i 12.000 e i 17.000 dollari.
Alla lettura della sentenza del 19 dicembre che sancisce che i subpoena inviati agli internet provider non sono validi e che quindi i log ottenuti tramite questo sistema non possono poi essere utilizzati per alcuna causa penale il presidente della Riaa Cary Sherman ha commentato: «Questa decisione non è coerente con l'opinione espressa dal Congresso e le decisioni della corte distrettuale. Sfortunatamente significa che non potremo più avvertire coloro che condividono file illegalmente prima di avviare una causa contro di loro. Verizon è l'unica responsabile di una nuova pratica che sarà particolarmente poco sensibile agli interessi degli utenti». La realtà, però, è che con questa sentenza la lobby discografica ha perso un sistema rapido ed efficace per spillare soldi al popolo della rete.
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