Istruzioni per l'uso: come brevettare una mela e uccidere un libro a colpi di fotocopie
«Sarà che hanno perso l'innocenza dei tempi biblici, ma anche con le mele bisogna stare attenti. Raccogliere una qualsiasi parte della pianta può essere molto pericoloso. Se n'è accorto un giovane americano che è stato colto in flagrante mentre faceva man bassa di innesti di Honeycrisp. Ora rischia fino a quattro anni di prigione.» (da “Se c'è il copyright anche sulla mela”, Il Manifesto, 5/10/03)
Le mele sono diventate pericolose, specie se sono succose e croccanti come la varietà Honeycrisp, coltivata nello stato di New York e coperta da un brevetto detenuto dalla Università del Minnesota. La Nursery Licensing Association, un gruppo impegnato nella difesa dei diritti di proprietà intellettuale in agricoltura, ha subito commentato che il caso servirà a diffondere tra i coltivatori la consapevolezza che «prelevare degli innesti è un reato penalmente perseguibile». Si tratterebbe infatti di una chiara violazione delle leggi sui brevetti.
«Il Gruppo Editoria Universitaria e Professionale dell’AIE (Associazione Italiana Editori) ha lanciato una campagna di sensibilizzazione contro la riproduzione illegale dei libri: “Complimenti! Oggi hai ucciso un libro” è il messaggio provocatorio contro i “pirati del sapere” della campagna nazionale contro le fotocopie illegali.» ( da http://www.aie.it/ufficiostampa/visualizza.asp?ID=647)
Dal 6 ottobre, l'Italia è tappezzata dai manifesti della campagna nazionale contro le fotocopie illegali: 32 città universitarie, 77 atenei, 700 biblioteche, 400 librerie sono i luoghi interessati. E’ stata prevista anche un’attività mirata di mailing diretta alle copisterie (quale il subject delle mail? Forse “Brutti birboni, vi abbiamo beccato”?). «La fotocopia illegale - ha spiegato il presidente del Gruppo Editoria Universitaria - sottrae il compenso a tutti coloro che nei libri trovano la loro fonte di sussistenza: traduttori, redattori, illustratori, tipografi, distributori e librai. Si può valutare che le fotocopie illegali sottraggano il lavoro nel nostro Paese a 12mila persone». Per questo si tratta di una «campagna di civiltà - ha sottolineato Ferruccio de Bortoli, presidente del Gruppo Editoria dell’AIE - a protezione del diritto d'autore, dell'industria del libro e della sua occupazione. Una legge che consente le fotocopie per uso personale entro il limite del 15% c'è: oltre è un atto di pirateria, come per CD e film. Ma in questo caso si uccidono la cultura e gli autori italiani». I Disobbedienti napoletani, in risposta alla assurda campagna dell’AIE, che invita alla delazione e alla denuncia di coloro che fotocopiano libri, il 23 ottobre scorso hanno inscenato una azione di protesta: all'interno degli uffici della S.I.A.E. occupata sono stati fotocopiati quegli stessi libri che la legge in vigore impedisce di fotocopiare. L'azione disobbedisce alla legge sul copyright, che impedisce la fotocopia integrale dei libri e che, insieme agli altissimi costi per i libri scolastici e universitari, crea un ostacolo insormontabile al diritto allo studio per le fasce sociali non garantite.
I tentativi di introdurre sistemi anticopia si moltiplicano anche nel campo dei media digitali. Nonostante recenti indagini parlino di vendite quasi raddoppiate dei cd singoli, le majors continuano a piangere miseria, accusando i sistemi di file sharing. Così da qualche tempo sui cd in commercio viene apposto un bollino per indicare l’utilizzo di tecnologie che impediscono la duplicazione. Il punto è che per porre questa limitazione se ne sono aggiunte altre, come l’impossibilità di leggere questi cd sul proprio computer o di poterlo fare solo con particolari programmi proprietari. In alternativa ci si affida sempre più al “digital right management”, un insieme di tecnologie da implementare su vari sistemi per verificare di volta in volta se della canzone o del film che abbiamo scaricato, abbiamo pagato o meno i diritti. Uno scenario da “Grande fratello” che farebbe conoscere le nostre abitudini e preferenze, per essere certificati come “consumatori paganti”.
«Il termine hacker, che successivamente venne confuso con i reati di pirateria informatica, era stato mutuato dal verbo to hack, che significa letteralmente "fare a pezzi", "smontare". In effetti il lavoro degli hacker era quello di prendere in mano il software per poterlo smontare, cioè analizzare, al fine di ricostruirlo e migliorarlo.» (da “Spirito Hacker” di I.Domanin, in Linus, novembre 2003)
I protagonisti della fase pionieristica delle tecnologie informatiche, un gruppo di programmatori esperti di discipline scientifiche innovative come l’intelligenza artificiale e la cibernetica, condividevano molti degli ideali di emancipazione che contraddistinguevano le contemporanee lotte per i diritti civili. Avevano uno stile di vita imperniato sulla tecnologia, intesa, però, come un mezzo di libera espressione e di costruzione di una società più democratica e più giusta. Gli hackers coltivarono ideali controcorrente e libertari, che valorizzavano l’idea di una cultura orizzontale e non gerarchica, e il loro spirito si rivelò il fondamento di una nuova etica, che contestava le spinte egoistiche e individualistiche e che riconosceva il primato sociale dell’intelligenza collettiva. Pensando al fatto che gli hacker sono ora identificati dai media come dei pirati informatici, possiamo renderci conto della colossale mistificazione. La cultura hacker sostiene una filosofia sociale e cooperativa della tecnologia, basata sui valori della condivisione e della solidarietà, che ha al centro una cultura del dono distinta dalle concezioni economiche basate sul valore di scambio. La pirateria, al contrario, intende violare la legalità vigente per perseguire scopi individualistici ed egoistici di appropriazione indebita. Lo scambio gratuito di file tra utenti nelle reti peer-to-peer, ad esempio, non ha nulla a che fare con la pirateria, in quanto non si basa su un fine di lucro, ma su un atto libero di donazione. La pirateria esiste, al contrario, se io masterizzo copie di un cd e ne vendo il contenuto illegalmente. La nuova cultura antagonista digitale ha messo in luce come i futuri assetti normativi in materia di copyright e brevetti modelleranno lo sviluppo economico, sociale e culturale. Il software è l’artefatto cognitivo alla base della produzione e della trasmissione del sapere all’interno della società dell’informazione. Privatizzare il software significa mettere nelle mani di alcuni le decisioni fondamentali circa l’accesso, la diffusione e l’utilizzo dell’informazione all’interno del nostro mondo. Per questo lo statunitense Richard Stallmann, che nel 1984 è giunto a teorizzare una nuova filosofia della tecnologia basata sul concetto di free software, ha sempre sottolineato come l’espressione debba essere intesa come sinonimo di “libero”, come nel caso dell’espressione free speech (libertà di parola). Ecco perché la battaglia per il software libero è una battaglia decisiva per il ripristino e la tutela dei diritti di cittadinanza.
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