Saperi di pubblico dominio
Un fantasma si aggira fra i corridoi delle università e dei laboratori di tutto il mondo. Si chiama open access ed è il nemico numero uno degli editori delle riviste scientifiche. È la possibilità per tutti i ricercatori, studenti, curiosi - a condizione che siano dotati di accesso a internet - di leggere, stampare, copiare e ridistribuire liberamente gli articoli scientifici più interessanti. Il tutto rigorosamente gratis. Apparentemente il concetto non sembra rivoluzionario. La scienza moderna si basa sulla trasparenza e sulla circolazione dell'informazione. «La conoscenza scientifica va, per essenza, integralmente comunicata perché il sapere scientifico è e deve essere praticabile da tutti», ha detto recentemente in una intervista lo storico della scienza Paolo Rossi. Una concezione che si è affermata con la nascita della scienza moderna da Newton e Galileo in poi, in netta contrapposizione con il modello ermetico di una conoscenza riservata solo a pochi iniziati.
Ma il problema è che oggi tutto questo si deve coniugare con un modello economico in cui anche gli editori delle riviste scientifiche aspirano al loro legittimo profitto, ma spesso a scapito dell'accessibilità dell'informazione. Il giro d'affari del settore si aggira ormai sui 10 miliardi di dollari all'anno. Se si aggiunge a questo che ormai pochissime case editrici scientifiche stanno assorbendo tutte quelle minori (un po' come è avvenuto per le agenzie di stampa o le case farmaceutiche), che le istituzioni di ricerca versano in condizioni economiche drammatiche e che gli abbonamenti ad alcune riviste specialistiche oggi possono arrivare a costare anche 30mila dollari all'anno, il risultato è una informazione scientifica che di fatto è sempre meno disponibile, in particolare per i ricercatori dei paesi più poveri.
Per combattere tutto questo un gruppo di più di 30mila ricercatori di 180 paesi aveva firmato alla fine del 2000 una lettera in cui si chiedeva agli editori di rendere pubblicamente accessibili tutti i lavori di ricerca dopo 6-12 mesi dalla pubblicazione, sul modello di quello che aveva fatto PubMed Central proprio all'inizio del 2000, rendendo pubblici i lavori pubblicati dai Proceedings of the National Academy of Sciences e da Molecular Biology of the Cell. Ma come nel caso di PubMed, anche se le reazioni dei ricercatori furono incoraggianti, la maggior parte degli editori non aderì. E così gli organizzatori della Public Library of Science (Plos), promotori dell'iniziativa, decisero che l'unica strada percorribile era quella di fondare una rivista scientifica basata su una filosofia diversa, quella dell'open access, in cui la logica del «paga per leggere» venisse ribaltata nel «paga per pubblicare», sulla base del presupposto che fosse molto più semplice ottenere per i ricercatori una piccola percentuale in più nei loro fondi di ricerca (che oggi già prevedono finanziamenti delle tasse di pubblicazione) che per tutti i lettori non appartenenti a università o enti di ricerca abbonati leggere a pagamento. Senza contare che già molti ricercatori pagano se vogliono pubblicare su alcune specifiche riviste o per poter avere pagine a colori.
E così qualche settimana fa ha fatto la sua comparsa una nuova rivista scientifica. Si chiama Plos Biology, e a parte per l'accesso, funziona proprio come ogni altra rivista scientifica: possiede uno staff di editor responsabili, un processo di peer review che garantisca la qualità delle ricerche attraverso la valutazione della comunità scientifica e persino un breve riassunto del senso della ricerca in termini non tecnici per tutti i ricercatori di altri campi di ricerca interessati. Non solo: Plos ha obiettivi ambiziosi, e ha deciso di collocare le sue riviste (la seconda, Plos Medicine, seguirà nel 2004) nella fascia elitaria delle riviste scientifiche: «Solo gli articoli che garantiscono significativi passi in avanti nel campo di ricerca verranno pubblicati», scrivono. Il costo della pubblicazione per i ricercatori è stato fissato in 1500 dollari, secondo i promotori una cifra equa. E fondazioni come la Wellcome Trust (di cui fa parte anche l'italiana Telethon) hanno già annunciato che prevederanno di coprire queste spese nei finanziamenti che erogheranno.
Per il futuro sono previsti sconti sulla tassa per i ricercatori che non potranno permettersela (e in ogni caso gli editori di Plos garantiscono la revisione dei lavori scientifici a tutti, indipendentemente se i ricercatori potranno pubblicare o meno). La rivista comunque, oltre alla versione internet gratuita, sarà anche su carta al costo di 190 dollari all'anno.
Il merito di tutto questo va a Harold Varmus, Nobel per la medicina nel 1989, ex direttore dei National institutes for health (Nih) statunitensi e artefice anche dell'iniziativa PubMed, e a un finanziamento di 9 milioni di dollari ottenuto nel 2002 dalla Moore Foundation per coprire i costi dei primi anni di gestione.
Secondo Pat Schroeder, presidente della Association of American publishers, la cosa è «interessante», ma non può funzionare economicamente. Vedremo. Ma la vera difficoltà oggi sarà convincere i ricercatori a pubblicare su una nuova rivista piuttosto che su una rivista già affermata. Un giovane ricercatore difficilmente rischierà di «bruciare» una sua pubblicazione di valore su Plos quando avrebbe un successo assicurato su riviste con un impatto sulla comunità scientifica molto maggiore - per ora. Secondo i promotori di Plos però l'impact factor della loro rivista, a causa del fatto che ha elevati standard scientifici ed è accessibile a tutti e quindi facilmente citabile, è destinato a diventare presto importante.
Resta il fatto che per il mondo della ricerca biomedica si tratta di una novità importante. Non così per il mondo della fisica e delle scienze cosiddette hard, che hanno una lunga tradizione in fatto di circolazione delle pubblicazioni. Il server chiamato arxiv.org (che ha un mirror italiano sul sito della Sissa – Scuola Internazionale di Studi avanzati - di Trieste) è stato fondato nel 1991 dai fisici teorici per rendere pubblici i loro manoscritti prima della pubblicazione vera e propria.
Da allora arxiv è diventato una «biblioteca» virtuale che anticipa circa la metà delle pubblicazioni su riviste convenzionali (che comunque danno il sigillo finale di autorevolezza con il consueto meccanismo del peer review) in fisica, informatica, astronomia e molte specialità matematiche, e da poco anche la biologia matematica.
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