FaceWhatsGram divorerà i nostri dati
Facebook ha acquisito Instagram nel 2012 e Whatsapp nel 2014, spendendo complessivamente 20 miliardi di dollari. Una cifra spropositata, inizialmente giustificata nel nome della solita strategia che, se i concorrenti sono troppo pericolosi, si possono pur sempre comprare. Al momento delle due acquisizioni Zuckerberg aveva promesso, anche per tranquillizzare l’Antitrust statunitense, che le due aziende di messaggistica sarebbero restate indipendenti (cosa peraltro comune in acquisizioni di questo tipo). Altre promesse furono fatte, ad esempio che non sarebbe mai stata introdotta pubblicità in WhatsApp.
Col passare del tempo però sono emerse le reali intenzioni di Zuckerberg e i fondatori delle app di messaggistica, inizialmente rimasti in sella alle proprie aziende, si sono dimessi uno dopo l’altro. Prima Brian Acton, cofondatore di WhatsApp, nel settembre 2017, seguito dall’altro cofondatore Jan Koum nell’Aprile 2018. Come motivazioni citarono divergenze con Zuckerberg, in particolare relativamente all'introduzione di pubblicità. In seguito allo scandalo Cambridge Analytica, Acton con un post su Twitter fu ben più esplicito: “It is time. #deletefacebook” (E’ giunta l’ora: cancellate Facebook). Kevin Systrom and Mike Krieger (cofondatori di Instagram) si sono ambedue dimessi a Settembre 2018 senza fornire particolari spiegazioni.
Ora che il campo è libero e gli iniziali fondatori sono stati tutti rimpiazzati con fedelissimi di Zuckerberg, arriva la notizia, pubblicata dal New York Times: WhatsApp e Instagram verranno integrate con Facebook Messenger. Notizia che rumoreggiava da tempo e che probabilmente ha contribuito a così tante defezioni.
Di cosa si tratta?
Il New York Times ha parlato con quattro persone coinvolte nel progetto che ne hanno svelato – sotto il vincolo dell'anonimato - i dettagli: entro il 2020 le tre applicazioni di messaggistica verranno consolidate in un unico sistema. Continueranno ad esistere come app separate, ma la sottostante infrastruttura verrà unificata, consentendo quindi di incrociare dati personali, abitudini e attività di circa 2.6 miliardi di profili.
A parziale compensazione di questo brusco cambiamento di rotta, che sta destando non poche reazioni negative, Zuckerberg ha anche voluto che in questo progetto mastodontico venisse introdotta la criptazione end-to-end nello scambio di messaggi tra le tre applicazioni. Questa scelta, probabilmente voluta per addolcire la pillola relativa all’unificazione degli account, desta parecchi sospetti.
Attualmente questa funzionalità è presente in WhatsApp e garantisce che i messaggi non siano facilmente accessibili mentre in transito. Attenzione, si parla del transito dei messaggi, non di dove i messaggi sono memorizzati. Mentre questo approccio può essere in parte valido su WhatsApp, che conserva i messaggi solo sulle device delle parti coinvolte nella comunicazione, ha evidentemente molto meno peso in un contesto dove i messaggi vengono comunque memorizzati in sistemi centralizzati le cui eventuali chiavi di criptazione restano in possesso di Facebook.
Come Edward Snowden ha rivelato nel caso di Skype e Microsoft, nulla impedisce a chi detiene questi messaggi di cedere le chiavi di criptazione su richiesta da parte di NSA, FBI o chiunque abbia abbastanza potere da poterle chiedere (o qualcosa in cambio da offrire). E si tratta pur sempre di software proprietario, il cui codice sorgente è segreto, per cui non potremmo mai sapere se quello che ne affermano i proprietari corrisponda a verità. Quindi, come fa notare Matthew Green, professore di criptazione alla Johns Hopkins University, la conseguenza di questa fusione sarà casomai che WhatsApp diventerà meno sicura.
La pillola più che indorata sembra sia ulteriormente avvelenata.
Tornando a Facebook, la compagnia statunitense ha giustificato la pillola l’operazione con il nobile e altruistico scopo di “Voler fornire la migliore esperienza di comunicazione possibile”.
È noto che Babbo Natale non vive nella Silicon Valley, le renne soffrirebbero il clima.
Quali sono quindi le vere ragioni di Zuckerberg?
Cosa può giustificare un tale investimento nell’acquisizione miliardaria prima e nella complessa integrazione di queste applicazioni di messaggistica dopo se non, appunto, un ritorno finanziario superiore?
Consideriamo in questo contesto anche altre recenti iniziative di Facebook, come l’acquisizione dell’israeliana Onavo che diffondeva app mascherate come servizi di sicurezza e ottimizzazione della banda, ma che in realtà spiavano le attività degli utenti. Oppure il pagare adolescenti e giovani per installare una propria applicazione e monitorare il loro traffico dati.
Come viene capitalizzato il potere che deriva dal controllare così tante informazioni?
Una risposta ce la fornisce Zuckerberg stesso nelle 752 pagine della sua audizione dell’Aprile 2018 alla Commissione per l’Energia e il Commercio del Senato degli Stati Uniti.
Facebook al momento vive prevalentemente di pubblicità, per la precisione 40 miliardi di dollari nel 2017, e questo ricavo ha anche la sua unità di misura, nota col nome di ARPU (Average Revenue Per User), ovvero guadagno medio per utente. Si tratta di circa 20 dollari all’anno per ogni utente nel 2017, in costante crescita.
Pubblicità mirata, basata sui meta-dati acquisiti mediante analisi dei comportamento degli utenti sulle piattaforme social controllate da Facebook.
Possibile quindi “che sia tutto finto, e che sia tutta pubblicità”?
C’è dell’altro.
Dal 2010 Facebook ha stabilito degli accordi con altri giganti del settore, offrendo loro accesso ai dati personali degli utenti. Ad esempio Microsoft ha potuto accedere ai nomi di tutti gli utenti, Netflix e Spotify hanno avuto accesso ai messaggi personali, Amazon ha ottenuto nomi e contatti, Yahoo ha potuto accedere a tutti i post degli utenti e dei loro amici. L’indagine del New York Times, che ha parlato con oltre 50 ex-dipendenti di Facebook, rivela che oltre 150 aziende hanno avuto accesso ai dati personali in possesso di Facebook. Una scandalo di dimensioni ben più ampie rispetto a quello di Cambridge Analytica, che ha approfittato di un accesso molto più limitato.
I dettagli economici degli accordi stipulati con queste aziende appartenenti alle industrie più disparate (tecnologia, media, automobili, e-commerce, intrattenimento) non sono disponibili, ma possiamo immaginare che non siano spiccioli. La giustificazione di Zuckerberg è che le informazioni personali sono state condivise con “partners”, che si sono impegnati a non abusarne, e che ciò è permesso dalle normative sulla privacy.
Al di là dei dettagli tecnico-legali, è evidente come sia fuorviante la narrativa che Facebook protegga i dati dei suoi miliardi di utenti e venda solo la possibilità di fare pubblicità mirata. In realtà Facebook detiene questi dati, questi dati hanno un valore economico, e Facebook ne commercia allegramente.
Possiamo anche immaginare quali saranno i prossimi “partners”. Ad esempio, il Dipartimento di Stato si appresta a chiedere le credenziali di accesso ai social network usate negli ultimi 5 anni da parte di tutti i richiedenti visto per gli Stati Uniti. Come farà il Dipartimento di Stato per verificare la veridicità di queste credenziali, o per indagare ulteriormente in caso sospetti che non tutte le credenziali siano state fornite? Busserà alla porta di Facebook & C., ed ovviamente l’accesso non sarà gratuito.
È questo il vero mercato. La pubblicità continuerà ad esistere, magari solo in parte (nella medesima audizione al Congresso Zuckerberg non ha escluso la possibilità di un Facebook a pagamento senza banner pubblicitari), ma il vero valore finanziario sta nel possesso dei dati relativi agli utenti. E nel venderne l’accesso a “partners” anche occasionali. Tutto questo giustifica il costo e lo sforzo enorme di consolidare Messenger con Instagram e Whatsapp.
E chissà quali altre opportunità di monetizzazione verranno perseguite da Facebook in futuro. Esiste già un mercato enorme per aziende e individui che, in fin dei conti, sono guidati solo dal profitto. 1000 likes costano 89 dollari. Un “influencer” si trova a partire dai 20 dollari l’ora, ma su Instagram si arriva anche a migliaia di dollari. Tutto ha un prezzo e ci sono influencer di ogni genere, dall’agitatore all’attivista. Ossessionati dal nostro narcisismo individualista, un giorno saremo pronti a comprare amici e commenti. E la politica, tradizionalmente lenta ad adottare tecnologie di comunicazione moderne, sta recuperando terreno. Se le elezioni del 2040 si svolgeranno su Facebook, nel 2044 troveremo lo studio ovale in vendita su eBay.
Tornando al nostro ancora imperfetto presente, sembra che in questo periodo di crisi di credibilità per vari scandali la strategia di Zuckerberg sia quella di tirare dritto, negare l’evidenza, ed osare ancora di più nella direzione di controllare e commerciare i dati personali e le attività degli utenti delle sue piattaforme.
Che fare?
Siamo nelle mani dell’Antitrust. Mani un po’ indecise, divise e fortemente politicizzate. In molti chiedono che Facebook Instagram e WhatsApp vengano separate ma questa separazione diventa ogni giorno più difficile. Prima la Germania e poi l’Unione Europea sono intervenute per bloccare il trasferimento di dati da WhatsApp a Facebook. Dopo il consolidamento questo sarà molto più difficile.
Già nel 2013 Jaron Lanier propose che dovremmo farci pagare per il fatto di cedere le nostre informazioni personali a colossi come Facebook e Google. Una class-action è partita recentemente anche in Italia, guidata da Altroconsumo, che chiede a Facebook un rimborso di 285 euro per ogni anno d’iscrizione.
Potremmo più semplicemente abbandonare Facebook e le sue controllate e cercare, se proprio non vogliamo farne a meno, social di dimensioni più umane, e magari ispirati a valori più sani.
Il minimo che possiamo fare, se vogliamo mantenere attivi i nostri account Facebook / Instagram / WhatsApp, è applicare uno spirito critico ancora più severo di quello che applichiamo a media notoriamente manipolatori come la televisione. Ed educare a questo spirito critico.
Ovvero dobbiamo essere consapevoli che qualsiasi contenuto visualizzato su Facebook, non solo la pubblicità, ma anche l’elenco degli ultimi post, i commenti, le storie, gli inviti, i “Mi piace”, sono controllati da algoritmi basati, alla fine, su meri accordi economici o di potere.
Qualcuno paga perché Facebook funzioni in questo modo. Cerchiamo almeno di non farci abbindolare.
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