Una critica liberale alla proprietà intellettuale

Forse è giunto il momento di parlare con durezza e schiettezza. Dire alcune paroline poco garbate sulla proprietà intellettuale, magari da una prospettiva insolita.
1 maggio 2004
Andrea Rossato

Alcuni, pochi invero, si sono accorti che la Camera ha approvato, con modifiche subdole ma assai efficaci ed importanti, il decreto legge Urbani, decreto che, nell'assegnare all'industria del cinema consistenti sussidi, introduce una repressione penale della condivisione, anche senza scopo di lucro, dei file mediante sistemi P2P.

Sono questi giorni di assordante silenzio, specie da parte di quei dotti giuristi sempre lesti nel prendere la penna per denunciare le nefandezze di un legislatore tracotante e liberticida.

Difendere i «pirati», quei giovani «ladri» che pretendono di poter impunemente ascoltare musica o guardare un film nei pochi centimetri quadrati dei loro monitor senza pagare il biglietto, non si addice forse a chi ha fatto della legalità la propria stella polare. A prescindere da ciò che quella legalità rappresenti.

Forse è però giunto il momento di parlare con durezza e schiettezza. Dire alcune paroline poco garbate sulla proprietà intellettuale, magari da una prospettiva insolita. Liberalismo contra proprietà intellettuale? Trattasi forse di una provocazione? Di un ossimoro?

Proprietà intellettuale. Con tale termine ci si riferisce ad una pluralità di istituti giuridici che spaziano dal diritto d'autore ai brevetti, dai marchi alle insegne.

Il termine proprietà, se altamente evocativo, ben poco si conviene a tali fenomeni. E ciò non solo e non tanto per via del fatto che essa, nella nostra tradizione giuridica, indica un dominio sulle cose, porzioni del mondo fisico, ma anche per via del fatto che la proprietà intellettuale, a differenza di quella "reale", ha connotati, finalità e limiti non condivisi con questa.

Si prenda il diritto d'autore. Esso nasce come strumento di censura e controllo che il potere politico volle esercitare sulla circolazione delle idee. Sotto questa veste non era però destinato a fare lunga strada e presto si circondò di una carica retorica che ne rese accettabili le reali funzioni alle quale era destinato.

Nel 1557 Filippo e Maria, i successori cattolici di Enrico VIII, emanano la Stationer's Charter che attribuí alla corporazione degli stampatori inglesi, riuniti nella Stationer Company, il potere di vietare la stampa di libri proibiti, adiuvati in ciò dal braccio repressivo rappresentato dalla famigerata Star Chamber. Stampare libri al di fuori delle regole imposte da costoro, che detenevano un monopolio totale su questa attività, sarebbe stato penalmente perseguito.

Ma il mondo stava cambiando e i monopoli concessi dai regnanti avevano le ore contate. L'era dei lumi era alle porte ed ergersi a difesa della censura diviene impraticabile.

La strategia cambiò: nello Statute of Anne del 1710, il primo documento normativo che contenga già tutti gli elementi del diritto d'autore moderno, si afferma che è necessario proteggere gli autori, che letteralmente muoiono di fame, da perfidi stampatori, che senza dar loro compenso alcuno, copiano le loro opere arricchendosi alle loro spalle.

La verità era assai piú prosaica. Gli stampatori inglesi stavano sperimentando la concorrenza derivante dalla cessazione dei monopoli. E l'esperimento non fece loro piacere. [Per una ricostruzione storica dettagliata si veda U. Izzo, Alle radici della diversità tra copyright e diritto d'autore, in G. Pascuzzi e R. Caso, I diritti sulle opere digitali, Padova 2002. Si veda L. Ray Patterson, Copyright and "The Exclusive Right" of Authors]

"Il Congresso per favorire lo sviluppo delle Arti e della Scienza avrà il potere di conferire agli autori, per un tempo limitato, un diritto esclusivo sulle loro opere". Cosí la Costituzione americana.

In verità tale diritto esclusivo, sino al '900, fu concesso solo a cittadini americani, per cui le opere degli inglesi, degli spagnoli, dei francesi o degli italiani, potevano essere impunemente copiate. Ciò era assai logico: gli americani importavano cultura, e volevano farlo a buon mercato. Poi divennero esportatori...

Nel 2003 Topolino sarebbe divenuto di pubblico dominio. Pluto lo avrebbe seguito nel 2006. Ciascuno avrebbe potuto utilizzare il personaggio per farne ciò che credeva, senza dover chiedere consenso alla Disney. Ma nel 1998 fu però introdotta un'apposita legge che allungava di 20 anni il termine di scadenza del diritto d'autore.

E' interessante notare che l'assetto normativo che a Disney consentí di utilizzare opere intellettuali altrui senza dover pagarne il fio, oggi sia mutato al punto di consentire alla Disney di impedire che altri facciano ad essa ciò che essa fece ai suoi predecessori.

Il diritto d'autore ha una sua carica morale che ne rende l'estensione assai ben accetta. Esso è fonte di remunerazione per chi aiuta a far crescere la nostra cultura. Ciò solo ne è infatti giustificazione. Vi è quindi da domandarsi se, allor quando esso diventi un limite alla crescita della nostra cultura, non sia il caso di ripensarne l'estensione.

Ma in questi termini ci troviamo nella situazione problematica di misurare costi e benefici che non riusciamo a definire con precisione.

La grande industria pesante ad alta densità di manodopera, consentita dal progresso tecnologico, ad un certo punto è stata soppiantata, sempre per via del progresso tecnologico, da modalità di produzione a minor densità di manodopera. Ciò si tradusse nella perdita di un elevato numero di posti di lavoro.

Ma il passaggio a modalità produttive che si sono dimostrate piú efficienti, e che hanno nel lungo periodo consentito di riassorbire la manodopera persa, hanno visto la resistenza di molti e, spesso, l'intervento dello Stato che, per impedire i costi sociali e politici della transizione, finí con il sovvenzionare imprese decotte, distorcendo il mercato e di fatto rallentando un processo di crescita dell'efficienza del sistema economico che avrebbe piú rapidamente potuto diminuire i costi che le sovvenzioni cercavano di rimandare.

Oggi assistiamo a qualcosa di analogo nel campo del diritto d'autore. Le nuove tecnologie della duplicazione ne disarticolano profondamente l'effettività. Tale processo è irreversibile. A ciò si risponde con una sua costante estensione, e con la contestuale predisposizione di apparati repressivi altamente costosi che possano rendere tale estensione effettiva.

Si fa ciò nel nome dell'industria dell'intrattenimento e dei suoi modelli di business. Si dice che chi "ruba emozioni" fa perdere soldi al fisco e contribuisce alla disoccupazione di milioni di persone. Ciò è vero. Cosí come moltissimi posti di lavoro sono stati persi dalla meccanizzazione dei processi produttivi.

Vi sono modi diversi di concedere sussidi a un'industria. E non stupisce quindi che il decreto Urbani conceda da un lato moneta sonante, e dall'altro repressione penale. Sono due modi di finanziare un industria di cui l'umanità ha fatto a meno per millenni, pur riuscendo a giungere a vette culturali immense.

Oggi uno Shakespeare non potrebbe scrivere gran parte dei suoi drammi se non dopo aver ottenuto il consenso scritto degli autori che lo precedettero e che avevano prima di lui utilizzato quelle trame. [James D. A. Boyle, The Search for an Author: Shakespeare and the Framers, 37 Am. Univ. L. Rev. 625 (1988)]

Oggi molte attività creative necessitano la costante consulenza di un giurista che dica cosa può essere fatto e cosa non può essere fatto. Una riflessione sui costi sociali del diritto d'autore scevra da ogni impostazione retorica e morale si rivela oggi quanto mai necessaria.

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