Io ragiono solo in gruppo
Idue recenti rapporti inglese e americano a proposito della guerra in Iraq hanno lasciato dietro di sé grande scetticismo. Sia il rapporto Butler inglese che quello americano, emesso dal Senate Intelligence Committee, sostanzialmente attribuiscono la buona fede ai governanti, Blair e Bush, e addossano ai servizi segreti la responsabilità per le valutazioni sbagliate sulle armi di distruzione di massa. Si tratterebbe dunque di una confermata inefficienza dei servizi nel conoscere e presentare la realtà. La cosa è abbastanza incredibile, per quanto la letteratura e il cinema siano ricchi di storie analoghe, dove le superspie si rivelano come dei burocrati incapaci. Come sovente avviene, le cause di un fallimento sono molteplici e tra queste va annoverato quel particolare fenomeno studiato dagli psicologi sociali che prende il nome di «Group Think», pensiero di gruppo. Già domenica scorsa sulla Stampa Barbara Spinelli segnalava il curioso riemergere di tale teoria dei comportamenti sociali che risale al lontano 1972.
Il termine venne coniato dallo psicologo dell'università di Yale Irving Janis per descrivere un modo di pensare erroneo che porta a decisioni sbagliate e talora disastrose. Secondo Janis questo fenomeno si presenta di solito in gruppi molto coesi dove c'è una forte tendenza verso valutazioni e decisioni unanimi. Questo spinge i membri del gruppo, senza che nemmeno se ne accorgano, a scartare gli approcci alternativi. Il risultato è che il gruppo nel suo insieme finisce per prendere delle decisioni che ognuno dei suoi membri, preso singolarmente, considererebbe sbagliate.
In sostanza si tratta di una forma di conformismo, ma non di quello generato in una singola persona che magari si sente debole e insicura e che perciò vuole aderire ai valori e alle opinioni della sua comunità, ma di una forma più raffinata, che si genera anche in gruppi colti, fatti di studiosi e leader. Le cause sono almeno due: una forte adesione del gruppo alla sua missione e la cultura comune (fatta di letture, linguaggio, frequentazioni eccetera).
Nel caso dei due rapporti, il fare ricorso alla spiegazione del «Group Think» è probabilmente strumentale e un po' ipocrita perché permette di continuare a attribuire anche ai servizi di intelligence la buona fede; se così non fosse andrebbero accusati di complotto e occorrerebbe anche indagare su chi ne siano stati i promotori; magari si dovrebbe di nuovo tornare a chiedersi se i loro superiori, Bush e Blair o i loro collaboratori più stretti non abbiano commissionato quei risultati.
Non c'è dubbio tuttavia che organizzazioni come la Cia siano costruite per loro natura in modo tale da favorire il fenomeno del pensiero conformista di gruppo: accurata selezione del personale, missione forte al servizio della patria, isolamento dalla società civile. Il saggio di Janis del resto citava proprio il Group Think come una delle cause della fallita invasione degli Stati Uniti a Cuba, alla Baia dei Porci. I consiglieri di Kennedy si autoconvinsero che ci sarebbe stata un'insurrezione popolare contro Castro, alla stessa maniera che quelli di Bush erano convinti che il popolo iracheno avrebbe accolto le truppe americane come liberatori.
Questi comportamenti disastrosi non capitano solo ai militari peraltro: possono verificarsi (e spesso si verificano) anche nelle aziende, nei partiti, in genere in ogni organizzazione tutte le volte che prevalgono le logiche e le informazioni interne rispetto a quelle esterne, del resto del mondo. Ovviamente per un'azienda, il cui scopo è di vendere al grande pubblico, questo è assai pericoloso, come lo è del resto per un partito che voglia vincere le prossime elezioni. Quanto sta succedendo nell'Ulivo sembra corrispondere esattamente a tale fenomeno.
I sintomi del «Group Think» sono diversi e i principali indicati dagli studiosi sono:
a) vengono esaminate poche alternative;
b) non si ascoltano gli esperti portatori di opinioni esterne;
c) si è molto selettivi nella raccolta delle informazioni (il che ha l'effetto di generare fittizie conferme delle proprie idee);
d) ci si crea una illusione di invulnerabilità e di superiorità morale sugli altri;
e) si razionalizzano a posteriori le decisioni sbagliate;
f) si cerca di proteggere il gruppo dai punti di vista negativi rimuovendo le critiche;
g) i membri del gruppo guardano l'uno all'altro in cerca di conferma.
Che le cose vadano in tale maniera non è certo obbligato e degli antidoti esistono, ma per attivarli occorrono almeno due cose: che l'organizzazione sia consapevole del problema e che sappia correre dei rischi. Perché a ben vedere il rimedio è uno solo e in fondo abbastanza ovvio: esporre se stessi e il proprio gruppo a punti di vista diversi, persino di persone non competenti, ma che, proprio per questo, possono offrire un punto di vista molto differente sia nell'analisi che nelle scelte da fare.
Questa è la lezione che viene dalla natura, la cui biodiversità viene da molti considerata un patrimonio prezioso a cui attingere, anche se in apparenza quattro specie di mele soltanto e dieci cereali a grande resa sembrano la soluzione più efficiente per sfamare il mondo (ma si è visto che non lo è). E questo è anche l'insegnamento che viene dalle reti sociali attivate dalla comunicazione digitale, i cosiddetti social network che di questi tempi sono così di moda, al punto da diventare non solo fenomeno comunicativo ma anche nuovo modello di business.
Ovviamente c'è un prezzo da pagare: chi operi da solo o con un ristretto gruppo di sodali molto coesi nelle idee e nei fini può sperare di essere efficiente negli obbiettivi che si assegna, mentre viceversa chi consulti molte persone con idee e conoscenze disparate impiegherà eventualmente molto tempo per sistemare l'analisi di un problema e magari si troverà con le idee molto confuse, apparentemente impossibilitato a scegliere. In ogni situazione quello che conta, dunque, è trovare l'equilibrio opportuno tra i due approcci.
Anche in questo caso i computer ci aiutano a capire la complessità della questione: un problema di calcolo molto pesante ormai non viene più affidato a una sola grande macchina - un supercomputer - ma quasi sempre distribuito tra macchine più piccole, a ognuna delle quali si assegna un sotto problema. C'è un però, tuttavia, perché più numerosi sono i computer decentrati, più intenso e pesante sarà il lavoro per coordinarli: ognuno svolge un compito relativamente semplice, ma cresce in termini esponenziali il traffico di informazioni di servizio per garantire il lavoro decentrato. A seconda dei casi specifici occorre che gli architetti dell'hardware e del software trovino il punto ottimale tra il decentramento e i costi delle transazioni. La ricetta non c'è, né per i servizi di intelligence americani, né per la cacofonia che affligge l'Ulivo: la soluzione a tali problemi è a sua volta un programma di ricerca.
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